Dopo Sanremo, il musicista torna con un disco in equilibrio tra generi diversi, che parla d’amore e attualità: fusion. L’intervista a Davide Shorty
Il cantautore, rapper e producer di Palermo Davide Shorty, finita l’esperienza sanremese, il 30 aprile 2021 è uscito con il suo ultimo disco, fusion., di cui abbiamo già avuto una notevole anticipazione a marzo, con l’uscita di fusion a metà (letteralmente, l’esatta metà disco).
La sua Regina alla 71esima edizione del Festival di Sanremo (categoria “Nuove Proposte”) lo ha portato al secondo posto e con più premi attribuiti dalla critica: Enzo Jannacci, Lucio Dalla e Lunezia. Abbiamo intervistato questo giovane artista, conosciuto ai più per aver partecipato nel 2016 alla nona edizione del talent show di X Factor (2015) dove si è posizionato terzo conquistando pubblico e giudici con la sua inconfondibile voce soul, con sonorità innovative e melodie contaminate da jazz e rap.
Partiamo dal principio, fusion. (il punto si legge o si fa una pausa) il tuo ultimo progetto, perché innanzitutto questa particolare attenzione al minuscolo ed al punto finale?
La pronuncia è proprio fusion, punto. Questo titolo è nato da una critica che mi è stata mossa a Sanremo Giovani, dove mi sono sentito dire: “sei troppe cose”. In effetti, riflettendoci, io sono già dalla nascita in quanto siciliano una fusione di tanti elementi diversi fra loro. E questo disco ne è un po’ lo specchio essendo un miscuglio di tanti generi diversi: soul, pop, jazz e cantautorato italiano. Il punto alla fine poi è categorico, mentre la scelta di tenerlo minuscolo nasce dalla voglia di “non urlare”, di tenere la conversazione pacata, rendendo più chiaro e comprensibile il messaggio.
Parti pacato, con la minuscola, ma poi alla fine vuoi difendere i diritti di tutti.
Io lo chiamo senso comune. Viviamo in una società in cui ci sono tante cose di cui parlare, tante cose da denunciare. Io parlo di tutto quello che mi suscita un emozione: di amore, di emigrazione, dei diritti di tutti. Ma non mi sento un portavoce, io parlo da privilegiato, non vivo certe cose ma le racconto come un “giornalista di parte”.
Quanto è stata importante per te l’esperienza sanremese?
È stato bellissimo, una "visione" avuta che si è poi realizzata. La pressione di avere gli occhi puntati addosso in diretta e in mondovisione mi ha in un certo senso responsabilizzato. Ho avuto modo di lavorare su me stesso grazie anche ad un gran team. Ho trascorso una settimana diversa che mi ha indubbiamente fatto crescere sotto tanti punti di vista. È stato poi bello ritrovarsi e condividere il palco con grandi artisti.
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C'è qualcuno, tra gli artisti di questa edizione sanremese, che hai trovato più affine a te e alla tua musica?
Sicuramente Folcast, per ovvi motivi di genere musicale e anche perché ci conoscevamo già prima. Ci siamo ritrovati in studio diverse volte, recentemente per una collaborazione di cui ora non posso parlare. In generale poi con tutti i giovani si è creato un legame. Tra i big invece maggiormente con Ghemon, che è un po’ un mentore e un pioniere del genere musicale che sto esplorando. Mi sento un po’ figlio della sua musica.
È iniziato il fusion.tour. Com’è stato tornare sul palco?
Ammetto che dopo un anno di assenza dal palcoscenico, nonostante qualche piccolo concerto l’estate scorsa, sono arrivato alla prima data un po’ intimorito. Però ci stava, è stato un timore sano, buono. Non c’è niente di più bello che condividere il palco con la propria band, con i propri fratelli.
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Il futuro è musica dal vivo, spero. Sono sempre in studio e collaboro in continuazione con tante persone, sia in Italia che fuori. Mi piacerebbe portare la canzone italiana all’estero, un po’ come hanno fatto i Maneskin con il loro brano. Credo sia stata una grande rivoluzione. E poi tra i miei obiettivi c’è l’album in inglese, intanto ne ho già uno in italiano quasi pronto.