Paola Iezzi: “Ora il buio non mi fa più paura”

“X Factor mi ha dato un nome e un cognome, non sono più, cosa che amo follemente, Paola di Paola e Chiara”. Paola Iezzi sorride tanto, in alcuni momenti scoppia pure a ridere, mentre si racconta a Stories, il ciclo di interviste di Sky TG24, in una lunga chiacchierata che ripercorre le tappe della sua vita e di una carriera segnata da un grande successo arrivato dopo una lunga gavetta a coronare l’ancora più durevole passione per la musica condivisa, fin da bambina, con la sorella Chiara. Quello che si chiude stasera a Napoli è il tuo secondo X Factor. Com'è la seconda volta? Se la prima volta non si scorda mai… La seconda secondo me è meglio. È un po' come quando fai l'amore per la prima volta: può essere romantico ma non è che te la godi proprio benissimo. La seconda invece inizi già a dire: “Ah però, è così? Bene!”. Quali sono le cose in più che hai acquistato in questa seconda stagione? Sicuramente ho capito meglio anche il senso del gioco di X Factor, forse io sono entrata un po’ meglio in quella cosa che era un po' avulsa da me. Più stratega, diciamo. No, stratega no, però ho capito meglio come selezionare i miei cantanti forse. E poi c'è anche una sicurezza in più nel conoscere anche fisicamente il tavolo dietro cui si sta seduti, come anche giocarmi determinate carte o non farlo. E conosco meglio anche i miei, insomma, colleghi di tavolo, tranne Gabbani che è l'ultimo arrivato. Con cui però a colpi di fioretto c'è qualche punzecchiatura qua e là. Sì, c'è stata perché credo che siamo anche un po' distanti come gusti musicali, però ci rispettiamo molto. Tutte le persone sedute al tavolo e la conduttrice formano una squadra meravigliosa di persone, anche dietro le quinte. Siamo un bel gruppo di lavoro. Ma tu te lo saresti aspettata che a questo punto del tuo percorso sarebbe arrivato un programma come X Factor? No. Sono sempre stata fan di X Factor della prima ora, ho passato tanto tempo a guardarlo come spettatrice sperando che prima o poi mi avrebbero chiamato per fare un provino, ma non è mai successo. Quindi è arrivato proprio in un momento in cui non me lo sarei mai aspettato. Peraltro, quando ho fatto il provino per X Factor, mi piaceva come lo avevo fatto. Come funziona? Ti fanno vedere delle vecchie clip di vecchi concorrenti e quando finiscono l’esibizione tu devi commentarli come se fossero davanti a te. C'è uno degli autori che interpreta in persona il concorrente e tu gli dici quello che pensi, poi ci sono altri autori che interpretano i tuoi compagni di tavolo, quindi un po' interagisci con questi finti colleghi e un po' con il concorrente fittizio dicendo quello che pensi dell'esibizione che hai appena visto. Io ho commentato le mie cose ed ero molto contenta, poi è arrivato il sì e sono stata molto felice. Poi però sono partite tutte le ansie: sarò all'altezza, non sarò all'altezza; piacerò, non piacerò; dirò le cose giuste. Perché io poi vorrei essere una persona giusta. Ecco, quello che mi preme tanto è che ciò che faccio abbia un senso. Vale per tutto ciò che faccio. Tu c’eri alla prima finale a Napoli di X Factor e sembravi l'unica a non avere freddo. Ma io, da vecchio volpone quale sono, mi ero premunita: avevo una cartucciera di scaldini sotto al vestito che nessuno ha visto, e stavo bella serena, ma serena proprio. Vedevo gli altri che marmellavano dal freddo, praticamente stavamo perdendo Manuel Agnelli e io dicevo: “Cari, ma scusate, siamo in piazza”. E loro, che avevano le pellicce, avevano un freddo… E invece io, vedi? Anni e anni di serate in discoteca, ultimi dell'anno in piazza. Quindi l'avevi già sperimentata? No, ma sapevo che sarebbe stato freddo. Allora ho detto: “Sai che c'è? Facciamo così, vediamo se funziona”. Con questi giovani artisti, con questi ragazzi, sei più maestra, guida, mamma, sorella maggiore, compagna? Un po' di tutte queste cose, compagna un po' meno, però riesco anche a esserlo, a volte. Mi rendo conto, soprattutto se sono giovani giovani, che i ragazzi hanno bisogno di una guida, di qualcuno che non gli dica cosa devono fare ma che sia un faro. Qualcuno a cui rivolgersi perché a volte ci sono dei momenti in cui si perdono, a volte sono molto determinati e a volte sbagliano, e anche tu sai già che stanno sbagliando ma non sai come fargli cambiare idea. Io non ho figli, però immagino che sia difficile quando hai già il tuo know how che la vita ti ha insegnato e devi fargli capire che questa cosa è un errore. Lo devono capire loro, tu ci provi a fargli capire “guarda che se canti sto pezzo non lo so, secondo me invece se fai quest'altro…”, e loro però, se son convinti di quella cosa, devono sbatterci il muso. Ti chiedo di finire la frase, tu al tavolo dei giudici sei la più? Sincera. Ti riporto un po' indietro: casa Iezzi, quella da bambina. Dove siamo? Chi c'era? Come era fatta? Sono sempre stata una ragazza del Sempiùn, abitavo all'ombra dell'Arco della Pace, a pochi passi dal parco, al quattro di corso Sempione, con la mia famiglia che era composta da mamma, papà e sorellona più grande di un anno con la quale sono praticamente cresciuta nella stessa camera, condividendo poster, gusti musicali, stereo. I nostri idoli assoluti erano Madonna, Michael Jackson, George Michael. Poi c'erano tutti i gruppi di quell'epoca, gli Eight Wonder, i Duran Duran e gli Spandau Ballet che amavo tantissimo. E poi c'era David Bowie, che era un altro che campeggiava sul muro. Poi ci sono stati quelli un po' stagionali tipo Sandy Marton e tutti quelli degli anni ’80. Che bambina eri? Ero proprio bimba, mi vien da dire. Fino alle superiori, quando ci hanno un po’ diviso, io e mia sorella siamo state appiccicate, abbiamo fatto le stesse elementari e le stesse medie, chiaramente Chiara un anno avanti. Andavamo a scuola insieme, tornavamo insieme, avevamo gli stessi amichetti, andavamo al parco a giocare insieme con la mamma. Eravamo molto disciplinate, mio mio papà, più severo e molto ligio al dovere, ci ha trasmesso questa cosa della disciplina, del fare sempre quello che dovevamo fare, essere puntuali, spegnere le luci quando si passava da una stanza all'altra, fare i compiti; c'era questo senso del dovere molto sviluppato nella mia famiglia. La mamma aveva quest'animo più artistico, però anche lei aveva questo senso del dovere, erano altre generazioni, probabilmente, hanno vissuto il Dopoguerra, per cui c'era questo senso di sobrietà molto forte, erano più i no che i sì. Hai fatto il liceo classico, giusto? Sì. Che studentessa eri? Ero un po' una pelandrona, diciamo. Ho avuto come insegnante al ginnasio il professor Vecchioni, che è stato un po' è come partire subito in serie A, poi se n'è andato perché lui ha fatto solo il primo anno e si è trasferito a Desenzano perché si è sposato ed è diventata insegnante in un altro liceo, e per legge del contrappasso è arrivata un’insegnante… Ce la ricordiamo anche benissimo. Tutti ce la ricordiamo, tutti noi della nostra classe, perché è stato talmente da lì a qui che è stato proprio un trauma che abbiamo vissuto come classe, e lì ho iniziato un po' a disinnamorarmi della scuola in generale, un po' perché la musica era già entrata in modo prepotente, avevo iniziato a fare le prime cosine, avere i primi gruppetti, a suonicchiare in giro e la cosa mi gasava. Mi piaceva tanto di più rispetto ad andare tutte le mattine in classe a fare l'interrogazione: “Iezzi, tocca a te”; “Prof, non sono pronta”. E quindi hanno iniziato a fioccare i brutti voti. Poi ci sono delle cose che mi piacevano come filosofia e italiano, mi piacevano molto le materie umanistiche, quelle scientifiche erano veramente incapace e dovevo portarle a casa comunque in qualche modo, latino e greco non sono mai stata una cima, col primo un pochino portavo a casa, il greco ogni anno lo beccavo a settembre. È stato un po' un supplizio finire il liceo, devo dire la verità, non ne avevo voglia, però l’ho finito perché mio padre e mia madre mi hanno sempre insegnato che quando inizi una cosa la devi portare a termine, anche perché sapevo che quella roba lì sarebbe stata un lasciapassare per fare quello che volevo fare dopo, cioè suonare. E la musica, appunto, è arrivata. Con tua sorella siete state coriste degli 883, su un'intuizione di Claudio Cecchetto. Com'è andata? All’epoca facevamo già musica, suonavamo con una band di amici, ci chiamavamo Elefunky ed eravamo piuttosto famosi nell'area milanese. Suonavamo in locali che adesso hanno chiuso praticamente tutti. Frequentavamo anche una scuola di musica e una sala prove che all'epoca era molto famosa, sui Navigli, la Jungle Sound. Ci andavano sia i non professionisti sia i grandi professionisti, da Pezzali a Ramazzotti, e si era sparsa la voce che questo gruppetto comunque sapeva il fatto suo. Eravamo tutti bravi musicisti, facevamo questo repertorio piuttosto colto e quindi a un certo punto i manager di Max, che volevano una band per lui dopo che era rimasto orfano di Repetto, andarono al Jungle Sound e chiesero a Fabrizio Rioda, il padrone delle sale prove, e ad altri ragazzi, se ci fosse una band interessante e loro fecero il nostro nome. La sera che è venuto a trovarci Claudio, suonavamo al Bolgia Umana, che era di proprietà di Jannacci, facevamo il nostro repertorio. Dal Jungle Sound ci avevano avvisati che sarebbe potuto venire Claudio ma noi pensavamo che non sarebbe mai venuto. E mentre eravamo tutti impegnati a fare un pezzo che poteva essere di Jackson o dei Tower of Power, vedemmo entrare Cecchetto, che tutti sapevamo chi era, e c'è venuto un colpo. Alla pausa lui ci chiamò e ci disse: “Volete essere i nuovi 883?”, così con queste parole, e noi abbiamo detto subito: “Ma certo”. E insomma, da allora… Non siete nemmeno risaliti per il secondo tempo… No, siamo risaliti. Abbiamo finito lo show e poi ci siamo ritrovati una o due settimane dopo in una saletta prove. Ci avevamo detto che forse sarebbe venuto a trovarci anche Max ma non pensavamo sarebbe venuto veramente, anche perché provavamo nella saletta del batterista Ivan Ciccarelli, non bellissima diciamo, un po' una cantinaccia, ma lui passò veramente nella nostra cantinaccia con dei fantastici regalini. C'erano tutti i dischi degli 883 impacchettati per ognuno di noi e lui si mise a cantare con noi, avevamo preparato un po' di pezzi e lui veramente si mise lì accanto, prese il microfono della saletta marcia e si mise a cantare davvero insieme a noi. Eravamo increduli. Mi ricordo ancora quando fece “L'uomo ragno” o “Sei un mito”, lo guardavo e mi chiedevo: “Ma veramente sta succedendo?”. Poi Max è sempre stato, e lo è tuttora, una persona di grande umiltà e semplicità, proprio nei modi. Nella vita di tutti i giorni è un carissimo amico, tuttora ci vediamo spessissimo con lui e la moglie, siamo rimasti proprio fratelli. Eppure aveva già venduto 3 milioni di dischi, che era una roba folle. Ma è vero che l'amore per la musica nasceva già prima? Che facevate i musical a Casa? Eh sì, un po' come tutte le ragazzine quando sognano. Con anche i biglietti? Con anche i biglietti, sì. Mettevamo insieme in pista questi spettacolini e ovviamente c'erano solo i parenti che erano obbligati a venire. Ne ho visti tantissimi di questi spettacoli a casa, ho esperienza. Eh, capisci, chi ha figlie femmine soprattutto poi sa. Con anche il libretto… Il libretto tutto illustrato, poi c'era mia sorella bravissima a disegnare, che faceva dei librettini top, facevamo il biglietto proprio da strappare, facevamo anche pagare l'ingresso perché eravamo anche imprenditrici. Il primo amore, quello non ricambiato, c’è? A voglia, meno male che c'è. Ti ricordi come si chiamava? Alle elementari avevo queste immagini di questo ragazzino che amavo, il mio compagno di classe, che era uno dei pochi a cui non piacevo, ovviamente, perché avevo un po' il mio pubblico, ma l'unico che non mi cagava di pezza era quello che mi piaceva. Si chiamava Oliver, era di origine tedesca e ho sempre avuto un debole per il per il look nordico. Lui aveva degli occhi azzurri bellissimi e capelli biondi. E però lui zero, un po' anche malmostoso, mia nonna che è piemontese direbbe un lassme sté, che in astigiano vuol dire “lasciami stare”. Non c'è mai stato niente, era un amore non ricambiato e poi a un certo punto mi è passata. Però salutiamo Oliver. Certo, ciao Oliver. Wherever you are: hello! Con “Amici come prima” vincete Sanremo e il grande successo inizia da qui. Non che con Max fosse male, eh… No, Max è stato il preludio, diciamo e forse ci ha mostrato la via senza volerlo. Abbiamo detto “abbiamo un'opportunità finché siamo giovani”. E chiaramente questo ragionamento non ce lo siamo fatto, è finito questo tour e abbiamo detto: “Ok, proviamo ad andare a scrivere un disco”. Chiedemmo consiglio a Max su dove farlo e lui ci disse: “Andate in Irlanda perché comunque è una terra che ha dato i natali a tantissime popstar, rockstar e musicisti grandiosi, dagli U2 a Van Morrison e i Cranberries”, poi negli anni ‘90 erano uscite tante band che arrivavano da lì. E quindi siamo andate in Irlanda e dopo questo viaggio mitico e mitologico abbiamo scritto questo primo disco tutto di nostro pugno e quando siamo tornate abbiamo fatto un provino con la Sony, un po' rocambolesco. Avete mandato la cassetta? No, perché allora se non avevi il computer e potevi farti i provini a casa dovevi andare in uno studio. Gli studi costavano e noi avevamo finito tutti i soldi per fare questo viaggio in Irlanda. Avevamo le nostre chitarre e chiedemmo a un nostro amico che era da poco impiegato in Sony come discografico, se potessimo andare a fare un provino col direttore artistico della Sony. Lui ci disse: “Provo, vediamo se mi dicono di sì” e chiese a Roberto Rossi, che è forse il nostro primo vero talent scout. Oggi non c'è più. Roberto è scomparso da qualche anno, con un immenso dispiacere. È stato lui che ci ha visto dal vivo. Noi ci siamo presentate nel suo ufficio vestite uguali, come poi ci ricorderanno tutti al primo Sanremo, con le nostre due chitarre, con un pacco di testi così e gli abbiamo detto: “Scegli, cosa vuoi sentire?”. Lui ci diceva i titoli di queste canzoni che lui non conosceva, ma che noi sapevamo perfettamente che ci eravamo preparate proprio bene. E le avete fatte le fatte dal vivo? Si. Una dietro l'altra. La porta era aperta e si è formato come un piccolo audience di tutti, diciamo. Le persone impiegate in Sony, in Columbia sono venute tutte lì. Poi partivano anche degli applausi e noi una settimana dopo avevamo il contratto per andare a fare Sanremo Giovani. L'anno in cui succede di tutto, fate anche la colonna sonora di “Hercules” in italiano, “Ti vada o no”. Esattamente. E in più apriamo anche il concerto, l'ultimo tour di Jackson, a San Siro. Lo avete visto? No, non l'abbiamo mai visto, non volevamo incontrarlo, il mio più grande idolo della vita. L'abbiamo visto da lontano, però io non volevo assolutamente conoscerlo perché non volevo che quell'idea che avevo di lui in qualche modo venisse stravolta. Scaramanzie? No, sono una persona per niente scaramantica. Vorrei esserlo perché tutti hanno la loro mania… Ma neanche una cosa? Che so, cammini per strada e pesti le… Le cacche? Ma no, ma come le cacche… Le fughe. Sai che ci sono quelle che hanno piccole manie: le fughe, le strisce… Le cacche, Paola… Sai che dicono che porta fortuna. Eh vabbè, ma quanta gente conosci che pesta le cacche apposta quando cammina? Che ne so, magari c'è qualcuno che lo fa. Eh, ma il fatto che ti venga in mente. È grave, lo so. “Vamos a bailar” è un altro clamoroso successo, vincete di tutto, si aggiunge una componente dance, anche un po' sensuale rispetto a quell'immagine di “Ci chiamano bambine”, no? Lì proprio siamo diventate grandi, cioè abbiamo proprio sentito lo stacco, almeno io mi ricordo di averlo sentito, perché io sono stata bambina per tanto tempo, anche in età adulta ho fatto fatica a crescere, devo dire, ci ho messo tanto, e lì è stato il primo step dove abbiamo buttato gli scarponcini. Ci siamo un po' fidate. Avevamo scritto questo pezzo e questo pezzo esprimeva indubbiamente una sensualità e una crescita anche musicale, dal pop rock siamo passate alla pop dance e abbiamo scritto sta canzone che era un po' una scheggia. È stato un po' il solco dietro il quale poi siamo andate a costruire tutto quell'album che è stato fortunatissimo. Per fortuna la nostra casa discografica e Roberto Rossi hanno capito immediatamente il potenziale di questo pezzo e delle altre canzoni. Dopo un periodo di buio, dove la casa discografica ci aveva un po' sganciato, siamo tornate con questi due o tre pezzi, e loro hanno subito capito dai provini che c'era un potenziale importante. Abbiamo presentato questo brano a Sanremo. Eravamo in studio a registrare “Arsenico” uno dei pezzi che poi faceva parte dell'album. Per suonare il basso avevamo chiamato Morgan che all'epoca era un grande amico ed era nella Sony anche lui con i Bluvertigo. A un certo punto entrò Roberto Rossi e ci disse: “Ragazze, mi dispiace, “Vamos” non piace alla Commissione di Sanremo e non è stata presa”. Noi pensavamo uno scherzo perché a volte Roberto faceva un po' gli scherzi, ma era serio ed è calato questo silenzio in studio. Mi ricordo ancora questa ombra di delusione, proprio tutti mogi, con Morgan di là che ci dice: “E adesso promettetemi che non ci andrete mai più”. Noi deluse, tristissime, e una volta quando non andavi a Sanremo si spegneva un po' tutta la macchina intorno. Grazie a Dio non è successo, perché comunque la nostra casa discografica credeva molto in quell'album in quelle canzoni che avevamo scritto. Quindi abbiamo continuato a lavorare e quando questo pezzo è uscito in primavera ha fatto un botto pazzesco, siamo rimaste prime in radio per tutta l'estate ed è andato anche fuori dall'Italia, ha conquistato molti paesi d'Europa tra cui Germania, Spagna, la Scandinavia. Che cosa pensi che gli altri dicano di te? Boh, Oddio, non ci penso mai, meglio non pensarci. Allora la rigiro, che cosa ti piacerebbe che gli altri dicessero di te? Dal punto di vista professionale, che sono una professionista perché lo sono, nel senso che tengo molto al fatto che sono una persona molto seria sul lavoro, un mio piccolo vanto d'artista è che ho sempre scelto io quello che volevo fare e quando è no è no. E se faccio una cosa è perché ci credo e anche se non ha successo la porto avanti fino in fondo, anche perché ho rinunciato a tutto il resto per poter fare questo lavoro, quello che faccio mi piace. Come persona vorrei che dicessero che sono una brava persona e che e sono intellettualmente onesta, non sono una che frega gli altri. Dopo 13 anni di progetti solisti, tu e Chiara siete tornate insieme. C'erano molte paure legate al coming back di di Paola e Chiara? No, ci siamo un po’ fatte guidare dall'amore che la gente ci stava dimostrando, soprattutto sui social, diciamo che la reunion è un po' avvenuta tra il palco di Max Pezzali, che ci ha chiesto di partecipare a quella degli 883, e in più da un po' di anni c’erano vari gruppi sui social che facevano un po' di ironia ogni volta su Sanremo sperando in un nostro ritorno. Piano piano questa cosa è montata finché i tempi non sono stati maturi e anche noi ci siamo convinte che forse era il momento giusto. Ma chi è stato il fautore o la fautrice di questo ritorno? Perché ho letto anche tu hai detto che ci sono stati anni anche difficili. Sì, sono stati anni di non comunicazione o di assenza di comunicazione, dove era difficile spiegare le reciproche ragioni e Chiara sentiva che voleva intraprendere un altro percorso artistico che tuttora sta perseguendo con tenacia e con forza. C'erano state delle sofferenze, delle difficoltà, perché io non capivo dal lato mio, perché un progetto così bello dovesse terminare. Però era anche giusto che dopo tanti anni di vita artistica e personale simbiotica, le nostre due strade si dividessero, che questa simbiosi stava un po' anche intaccando le nostre personalità e stavamo diventando una cosa che forse non avremmo dovuto diventare. Avevamo bisogno di crescere anche personalmente, ognuna per sé, e di stare lontane per ritrovarci. E poi ci siamo ritrovate di nuovo. Un po' è stata chiara a voler riapprocciare: “Ma se rimettessimo in piedi la band?”. Io inizialmente ero molto scettica, devo dire la verità, perché non ero convinta che fosse la cosa giusta perché avevamo chiuso con un disco bello, fatto bene, e non volevo che appunto fosse un ritorno triste. Speravo che fosse spumeggiante e così è stato. Quando siamo scese da quella scala, portando quel pezzo lì pieno di paillettes, di lettere, riaprendo il varco di luce, diciamo che è stato forse una delle più belle idee che abbiamo avuto negli ultimi anni. Si può dire però un grande ritorno, non dalla finestra. No, no, abbiamo fatto un grande ritorno, sostenute forse per la prima volta davvero dal pubblico che secondo me ci ha capito finalmente. Però lo dicevi, il pubblico lo aspettava, anzi forse un po' spazientito: “Ora basta con questa cosa che non vi parlate”. Devo dire che è stato fondamentale l'intervento del pubblico in questo senso, ci ha dato proprio due calci in ****. Lo facciamo un po' tutti: te lo sei mai immaginato il tuo funerale? Prima di tutto io devo dire che ho un rapporto con la morte un po' particolare, un po' speciale. Non so perché, però non mi fa così paura. Il dolore mi fa paura, mi terrorizza. È come se la morte facesse parte della vita, cioè dentro di noi, per quanto facciamo finta di non pensarci, comunque c'è. E comunque quando vedo dei luoghi di morte come i cimiteri, vengo pervasa da una specie di senso di pace. Non ho un'idea precisa di quello che avviene dopo la morte. Però diciamo che a me piace immaginare le anime che si ritrovano anche nei cimiteri. Me le vedo lì che pasteggiano, bevono il vino, si racconta le barzellette. Un po' tipo “Coco”? Esatto, un po' sudamericana se vuoi, sì. Dove comunque le anime sono in mezzo a noi. E a me piace l'idea che ci sia un luogo sacro dove loro sono lì e tu puoi andarle a trovare e puoi essere parte di loro. In qualche modo è difficile da spiegare, però è un po' una visione particolare, mi rendo conto. È uscito un nuovo singolo, “Superstar”. Chi è questa superstar? La superstar è, diciamo, una riflessione su questo mestiere, sul fatto che ti possa allontanare dalla gente, dalla vita normale. Quello che dicevo prima, quella sensazione per cui tu a un certo punto ti senti solo in mezzo alla gente: il mondo dello spettacolo può essere un po’ così, se vissuto in un modo esasperato, dove la vita vera non c'è più e la superstar è proprio quella che si intristisce, nonostante poi sia bardata di lustrini e di cose bellissime, diventa sola e si allontana dagli altri. Però c'è una visione positiva nella canzone, perché la superstar è anche un supereroe, una persona che getta luce dove c'è il buio. C'è un verso della canzone, che forse è il mio preferito, che dice: “Ma il buio non mi fa paura, se balli con me si accende la luna”. C'è stato un momento in cui il buio mi faceva paura, però oggi ho fatto un percorso tale per cui il buio non mi fa più paura e mi fa ancora meno paura se ci sei tu, tu inteso come pubblico, a darmi conforto o a tenermi la mano. Quella cosa che diceva anche di Paola e Chiara, che ci siamo sentite abbracciate per la prima volta dal pubblico ed era un abbraccio che non se ne andava, perché prima era sempre un po’ precario. Quando realizzi che il pubblico a un certo punto si è affezionato a te perché ti ha capito e non se ne va più nemmeno se fai una canzone che non gli piace così tanto: quello è il momento in cui il buio non ti fa più paura. In chiusura ti chiedo solo una piccolissima cosa: qual è la cosa più bella che ti ha dato X Factor? L'ho detto in altre interviste, mi ha dato tantissime cose X Factor, devo essere sincera. Tante bellissime sensazioni nuove che non avevo mai provato e anche delle riscoperte di me stessa, di isole che c'erano e che non sapevo che ci fossero. Ma forse mi ha dato un nome e un cognome per la prima volta. Sono Paola Iezzi e non solo e non soltanto, cosa che amo follemente, Paola di Paola e Chiara.

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Paola Iezzi: “Ora il buio non mi fa più paura”

Omar Schillaci