A tutto cuore, il tour kolossal di Claudio Baglioni

Musica

Bruno Ployer

foto Angelo Trani

“Tanti giovani intorno a me sul palcoscenico, è un ‘epidemia positiva”, dice il cantautore nella nostra intervista per i suoi concerti, che proseguono fino a febbraio in 11 città italiane

“Eccoci qua, nel circo delle nostre storie”, dice Claudio Baglioni dal palcoscenico introducendo il suo nuovo spettacolo A tutto cuore, che ha debuttato allo stadio centrale del Foro italico di Roma e proseguirà il tour, all’aperto e poi al chiuso, in altre dieci città fino a Febbraio del 2024. Lo spettacolo è festoso e fastoso, del circo ha i colori e la varietà, della rock-opera ha un filo invisibile che unisce le canzoni presentate, un diario di sentimenti lungo più di cinquant’anni. Il concerto ha anche qualcosa di solenne, come quando all’inizio una gran massa di artisti entra in scena dalle gradinate o dal retropalco scandendo rime e canti che riecheggiano il coro della tragedia greca. O come quando Baglioni, cantando Tutto l’amore che posso, duetta con ciascuna delle 5 coriste, in un numero post-operistico. Ai lati della scena, in basso e in alto, l’orchestra. In alto tre maxi schermi che compongono immagini di paesaggi, volti, forme e silhouette. Claudio Baglioni divide il palcoscenico del suo spettacolo con un centinaio di artisti e figuranti in uno show ambizioso come un kolossal teatrale. Divide il palcoscenico, ma gli occhi sono naturalmente tutti per lui, che propone una quarantina delle sue tante canzoni che toccano il cuore del suo pubblico. I suoni sono rinnovati e raffinati, ma l’arrangiamento non intacca il DNA melodico ed emotivo del suo repertorio. Ecco l’intervista con Baglioni, cordiale ed entusiasta in una sera che precede il debutto.

 

Partiamo dal titolo: ‘A tutto cuore’. Si parla di amore o di vita?
Parliamo di vita e di spettacolo, perché il cuore è il nostro primo strumento, una percussione che ci accompagna per tutta la vita. Forse è anche l’unico calendario, l’unico orologio che ci indica il tempo. Quando lo si mette tutto a disposizione è come metterci tutta l’energia, la forza, la voglia, l’entusiasmo. Si dice anche ‘a tutta birra’, ‘a tutto gas’: è usarlo tutto, nella vita e negli spettacoli.
Senti la fatica di usare tutto il cuore?
Sì, chiaramente è faticoso, però è anche estremamente piacevole, godurioso, liberatorio. Salire sul palco e iniziare il grande gioco è il privilegio di fare questo strano mestiere, per il quale io non ero fatto. Non avevo e non ho ancora la dovuta sfrontatezza, anche se ho imparato a essere un po’ più disinvolto.
In questo nuovo spettacolo hai sostanzialmente rinunciato a stare in scena soltanto con i tuoi musicisti. Siete in moltissimi sul palcoscenico, con la regia teatrale di Giuliano Peparini. Cosa ti ha convinto a fare così?
Questo è uno dei miei percorsi. Ne faccio anche altri: concerti solistici, quasi da camera, nei teatri lirici. In questo caso è uno spettacolo totale, che mette insieme diverse forme di espressione e discipline artistiche. In questo modo l’esibizione diventa più elettrizzante, anche per i protagonisti. Per me, che sono il primo protagonista del palco, avere intorno tanti comprimari, spesso molto più giovani, significa ricevere una sorta di scossa, di compagnia contagiosa, come un’epidemia positiva.  Significa anche esplorare nuove spazialità, che possono essere una novità. Ogni sera, all’aperto o al coperto, avremo un pubblico di 9.000-10.000 persone: cerchiamo però di fare un teatro che possa essere vissuto anche con gli occhi. Ci sono proiezioni, schermi, grandi luci, lo spettatore può godere con i propri sensi di ciò che accade sul palco.
Parliamo degli arrangiamenti delle canzoni. Mi pare che, almeno in parte, siano nuovi.
Sì, in parte. Ogni volta c’è un rinnovamento. Mentre le melodie e le armonie delle canzoni forse hanno la capacità di rimanere, perché sono nella memoria del pubblico, gli arrangiamenti, cioè i suoni, i colori che diamo alle canzoni, possono diventare contemporanei, ottenere un passaporto del tempo.
Hai mai avuto l’impressione, ascoltandoti, che canzoni di quaranta o cinquant’anni fa suonate con uno stile nuovo siano più belle oggi?
Sì, a volte accade e di questo bisogna essere soddisfatti. A volte si sfida la voglia di conservare che è in una parte del pubblico. Io credo che quelle cose esistono già e si possono ascoltare con i diversi supporti, ma in un appuntamento dal vivo rinnovato, secondo me deve esserci anche un invito diverso.
Il tour è appena all’inizio e forse è troppo presto per questa domanda, ma dopo tutto quello che stai facendo adesso, cos’altro puoi fare?
Non lo so. Ho dei progetti e mi piacerebbe tornare negli stadi. Ho già portato in questi grandi spazi concerti altamente spettacolari, ma ora vorrei tornarci con qualcosa di fruibile da tutti. Ho ancora il dubbio che stare a ottanta metri da un palcoscenico ti consenta di partecipare a un avvenimento insieme a tante persone, ma non ti permetta di partecipare all’emozione e all’intensità di quella rappresentazione.
Per dieci edizioni hai organizzato il festival annuale O’ Scià a Lampedusa, che ha sensibilizzato l’opinione pubblica sulla questione dell’immigrazione. Dunque, come ultima domanda, ti dico solo: Lampedusa.
Lampedusa continua questa storia che dura da trent’anni. Io sono tra i trecento artisti che dal 2003 al 2013 hanno cercato di accendere un riflettore su quelle storie che accadevano da sempre, ma non erano ancora all’attenzione dell’opinione pubblica. Penso che stiamo raccogliendo quello che abbiamo seminato: c’è stata indifferenza oppure il tema è stato tirato di qua o di là per sfide elettorali o per avere consenso. Il problema invece è mondiale, non è solo di Lampedusa ed è una grande tragedia per i migranti e per gli abitanti. Ne soffrono anche tutti coloro che non hanno modo di farsi un’opinione chiara e reagire a una situazione così difficile.

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