Maria Chiara Argirò: "Dobbiamo abituare il pubblico alla nuova musica e dargli spazio"
MusicaL'artista romana, ma trapiantata a Londra, ha accompagnato il pubblico del Viva Festival in un viaggio nella Natura attraverso il suo album "Forest City". L'INTERVISTA
Come Nausicaa incantò Ulisse, Maria Chiara Argirò ha ammaliato il popolo del Viva Festival con un set ipnotico e calamitante, al centro del quale è germogliato il suo ultimo progetto "Forest City", un album libero, senza schemi dove la Natura si connette con un mondo urbano con quella naturalezza che oggi si trova solo nei film. Questa artista romana, ma da anni residente a Londra, è riuscita dove la politica sta fallendo. La ho incontrata nel backstage del Viva Festival, che si sta svolgendo alla Masseria Grofoleo di Locorotondo, pochi minuti dopo la sua performance.
Maria Chiara partiamo dalla tua partecipazione al Viva Festival e da come hai scelto il set?
È stata una bellissima esperienza, ha un valore importante anche a livello umano e personale. Mi ha preso in modo viscerale. Per quanto riguarda la scelta dei brani ti posso dire che cambiamo la scaletta in base ai Festival.
Il tuo percorso artistico è assolutamente unico e “The Fall Dance” ne è il biglietto da visita: credo che sia una pietra angolare del jazz contemporaneo con degli elementi visionari, e cito per tutti “The man who sees the world” e “When the sea”; ti chiedo se ne hai oggi la percezione di quanto sia stato ed è importante.
L’album che mi hai citato oggi lo sento lontano da quello che voglio continuare a essere. E’ una lavoro vecchio, oggi lo sento più come didattico. Sono iperattiva nella composizione e cerco sempre di scoprire nuovi confini. Pensando a “The Fall Dance” mi dico che non è possibile che sia la stessa persona, ora non lo rifarei un album così. Però ti dico che gli ho dedicato tempo e studio, è una riflessione su quello che amavo, il jazz contemporaneo.
Nel 2019 arriva “Hidden seas” che ha un approccio quasi cinematografico: quanto il cinema è importante nel tuo lavoro? E quanto credi che il covid lo abbia penalizzato?
Ha penalizzato il lavoro ma quando esce l’album tu guardi già a quello che verrà. Qui trovi elementi elettronici e una sperimentazione più elettronica. Il covid lo ho accettato, ho avuto il tempo per pensare e riflettere. Ero più ossessionata dalla produzione e dalla ricerca dei suoni elettronici. Ho sempre in mente immagini quando scrivo e anche colori.
Quanto il mare, visto che compare spesso nei titoli dei tuoi lavori, lo possiamo considerare una fonte di ispirazione?
La mia famiglia mi ha portato sempre al mare da piccola, dunque, acqua e mare costituiscono un legame importante con la Natura. Ci aggiungo che Londra, dove vivo, è molto verde.
Tu hai sfruttato il periodo della pandemia per fare ricerca che poi hai messo in “Forest City”: ti sei sempre presa i tuoi tempi ma quanto il mondo che si è fermato ti è stato utile?
Per quanto mi riguarda sì perché sempre iperattiva. A Londra bisogna muoversi. Ha rappresentato uno spazio anche mentale per dire che certe cose non le farò più, sono andata oltre quello che ho imparato e ho archiviato il periodo del Conservatorio anche se, lo ammetto, mi è stato sempre un po’ stretto. C’è anche il nuovo spazio dato alla mia voce, molti mi conoscevano solo come pianista e tastierista.
“Clouds” e “Blossom” hanno una lunga coda strumentale: oggi queste raffinatezze sono sinonimo di libertà? Viviamo nella stagione delle radio-edition d’altra parte.
Vivere a Londra mi ha aiutato a essere più libera. Non scrivo musica per radio e lavoro senza calcoli. E’ importante per essere felice dal punto di vista artistico. Il pezzo radiofonico comunque non lo sento mio.
Nel finale di “Blossom” parli di germogli e fiori e della nascita dell’amore: è l’invito a connettersi di più con la natura?
Anche. Racconta una storia di una persona che si allontana, è una visione. C’è un abbraccio alla Natura, è un invito a tutti per una connessione più potente.
“Treehouse” mi ha ricordato il Barone Rampante di Italio Calvino: il messaggio che manda il libro è di uscire dalla pigrizia della quotidianità e ritrovare l’armonia con l’ambiente e con le persone che ci stanno vicino. Posso considerarlo anche il messaggio di “Forest City”?
Intanto ti dico che è un complimento. Il cuore della mia ricerca è questo. Vivo di dicotomie, lavoro sempre per coniugare due mondi tipo Roma e Londra o mare e natura. Si può vivere in qualunque posto del mondo se si ha la giusta sensibilità.
Quanto è alta la tua paura per il decadimento ambientale?
Altissima, ho preoccupazioni più che ansie. Lo abbiamo davanti il problema ma vedo anche che le nuove generazioni sono più consapevoli. La questione è che essendo molto giovano non hanno però potere né strumenti.
Quanto è importante la musica?
La musica è racconto ma anche diffusione di un messaggio. Deve dare consapevolezza. La musica non è politica ma è connessione tra industria e ambiente e dunque può essere strategica.
Che accadrà nelle prossime settimane?
Suono finalmente nella mia Roma nell’ambito dello Spring Attidute. Poi ho in programma po’ di cose a Londra. E nel frattempo compongo per una nuova fase.
Un tour italiano con almeno dieci date?
Mi piacerebbe, ne devo parlare col mio manager. Alla nuova musica, alle nuove tendenze il pubblico va abituato ed educato. Servono gli spazi e il passaparola ma ti dico che sono speranzosa!