Baustelle: "Siamo nudi e autentici, la nostra band suona il rock"

Musica
Fabrizio Basso

Fabrizio Basso

Credit Marco Cella

Un disco italo-americano dove la band toscana racconta l'uomo fallace e che si consuma. Un lavoro molto suonato e che non cede alla tentazione dell'elettronica. L'INTERVISTA

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L'attesa è (quasi) finita. Venerdì prossimo, 14 aprile, uscirà, finalmente, "Elvis" (BMG), il nuovo lavoro dei Baustelle che giunge a cinque anni di distanza da "L'Amore e la Violenza"Francesco Bianconi, Claudio Brasini e Rachele Bastreghi offrono un disco che tocca territori per loro mai esplorati prima, portandoli in una matrice americana fatta di strutture blues, soul, rock and roll, boogie. “Elvis” è un tributo all’uomo che ha commercializzato questo genere musicale e al contempo la metafora perfetta per rappresentare la caduta dell’uomo. In questo nuovo progetto si intrecciano ritratti di un’umanità rappresentata in tutte le sue sfaccettature, realizzati con la solite dose di spiazzante verità. “Elvis” dona sonorità inesplorate che si mischiano sapientemente alla sensibilità costitutiva della band e il risultato è un glam rock tipicamente baustelliano.

Rachele e Francesco partiamo da un titolo che già è evocativo, “Elvis”. In che mondi ci porta?
Unisce i nuovi e i vecchi Baustelle, ci sono pezzi come Los Angeles che sono chitarra, basso e batteria. C’è una rinfrescata rock, per la prima volta siamo influenzati da territori che non abbiamo mai toccato, in primis il blues americano. Siamo più nudi, autentici e suonati, non c’è elettronica.
Direi che vi siete divertiti.
E’ stato bello perché è stato come riformare una band, noi siamo sempre i soliti tre ma con nuovi compagni di viaggio che hanno partecipato in fase di scrittura e produzione. E’ un disco collettivo, suonare insieme è anche prendere i contributi degli altri.
Come identificate “Elvis”?
Ci piace pensarlo come un disco italo-americano. Il rock’n’roll in Italia è nato a Milano, Adriano Celentano andò a Sanremo con un pezzo alla Otis Redding; poi pensiamo a Zucchero e Pino Daniele che addirittura faceva il Blues in dialetto.
Cosa vi piace di Elvis Presley? Qualche periodo particolare?
Non ci sono periodi preferiti di Elvis ma quello decadente ci interessa molto perché è quello più da storyteller. Ci ha colpito la persona grassa, sudata, impasticcata e sull’orlo del collasso ma geniale.
Nella stagione dei social come sarebbe stato criticatissimo.
Oggi l’essere sempre in mostra ci rende tragi-comici. Non ci interessa la perfezione, ci interessa raccontare l’uomo fallace e che si consuma. Vorremmo fotografare gli esseri umani che si fanno i selfie.
L’album si apre con “Andiamo ai Rave”: fa quasi sorridere.
E’ una canzone sui ragazzi e sulla libera espressione di giovinezza ma purtroppo vivono dentro un sistema poco generatore di stimoli e cultura. Si trovano dunque costretti ad andare ai rave; oggi il fenomeno è ingigantito rispetto al passato. Noi avevamo le città lontane e ci restavano 2, 3 discoteche. Per noi i rave sarebbero una figata ma non lo sono più se diventano una sorta di ghetto. I ragazzi di oggi sono fragili.
Pronti per il tour?
Assolutamente. Stiamo già facendo le prove!

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