Grammy, l'intervista con Enrico Fagone, candidato italiano per la musica classica

Musica

Bruno Ployer

"Sono un ignorante curioso", dice Enrico Fagone, direttore d'orchestra di un album che concorre come migliore raccolta di musica classica ai prossimi Grammy. 

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Con una candidatura ai Grammy, i premi più importanti per la discografia, si impone all’attenzione  un musicista italiano che gli osservatori più attenti avevano già nei radar: Enrico Fagone, un contrabbassista e direttore d’orchestra nato 43 anni fa e con un gusto particolare per il nuovo. Concorre nella categoria ‘Migliore raccolta di musica classica’ e sarà a Los Angeles alla cerimonia del 5 Febbraio. Lo intervistiamo e scopriamo la sua provenienza, le sue influenze, le sue idee. Tutto ci testimonia un mondo della musica classica che trova sempre più punti di contatto con il mondo reale e la dimensione globale dell'arte di oggi.

 

Enrico, innanzitutto vorrei che lei ci parlasse dell’album con il quale è candidato ai Grammy.

 

“Si intitola ‘Aspire’ ed è stato registrato nell’ottobre 2021: è un album molto particolare, con un brano di Astor Piazzolla e uno di Heitor Villa Lobos. Per il resto è tutto di musiche di JP Jofre, un giovane compositore argentino emigrato in America e ora in Corea. Nella sua musica si sentono tante nazionalità, tante influenze. È la prima registrazione di queste composizioni e sono stati giorni belli e fruttuosi con la London Symphony Orchestra. È stata già una vittoria il potersi trovare tutti insieme: la clarinettista Seunghee Lee da New York, il compositore JP Jofre dalla Corea e io dall’Italia o dalla Svizzera, dipendentemente da dove mi trovavo. Tra tamponi e mascherine siamo riusciti a realizzare questa registrazione, che era stata già rimandata per la pandemia. Ho il cuore pieno di gioia per la candidatura ai Grammy, soprattutto perché arriva in un momento in cui vanno di moda i baby-direttori, mentre io apprezzo qualche capello bianco sulla testa dei direttori d’orchestra: la gioventù ti dà molte carte da giocare, ma direttori si diventa dopo un percorso, devi essere in grado di andare dentro la partitura, di creare una magia con l’orchestra, non semplicemente di avere un gesto chiaro e sintetico. Per me il podio è arrivato in un secondo momento: avevo già una carriera felice da contrabbassista quando circa otto anni fa ho cominciato a studiare compositore e direzione. È stato il maestro finlandese Jorma Panula a darmi la spinta definitiva. Quando lui mi ha detto “Ci sei” ho cominciato a fare le mie esperienze sul podio e ora eccoci qua.”

 

In ‘Aspire’ ci sono pezzi del ‘900 e molta musica dei nostri anni. Sta cambiando il modo di definire la musica classica?

 

E.F. “Assolutamente sì, grazie a Dio. Devo dire che in America questo è molto più facile: è un pubblico giovane rispetto a quello italiano ed amano quando si affiancano Bach e Mozart con gli autori contemporanei. Adorano avere il compositore sul palcoscenico, soprattutto quando è anche esecutore. Con JP Jofre e Seunghee Lee ci siamo conosciuti a New York per un concerto con l’orchestra di cui sono direttore musicale, la Long Island Concert. Lì abbiamo avuto l’idea del disco, da registrare con la London Symphony, l’orchestra ideale per questo tipo di progetto.”

 

Cosa significa per lei essere l’unico candidato ai Grammy proveniente dall’Italia, il Paese dove è nata l’opera e che ha una grande tradizione di direttori d’orchestra?

 

“Mi tremano le gambe, sono sempre stato orgoglioso di essere italiano e ho seguito molti esempi di Italiani nel mondo, come il maestro Riccardo Mutti, anche se io non sono niente in confronto a lui. Anche Giovanni Bottesini è un esempio: è stato il più grande contrabbassista dell’ 800, poi compositore e direttore d’orchestra. Ho sempre studiato tanto e questo risultato anche come direttore mi conferma che nella vita lo studio paga sempre. Sono felice, non vedo l’ora di essere a Los Angeles in questa incredibile bolla magica.”

 

Quali sono i suoi riferimenti nel mondo della musica?

 

Sono tanti, anzi sono tutti. Anche i direttori d’orchestra non capaci mi hanno insegnato. Come mi diceva il maestro Panula, bisogna togliere: i direttori giovani fanno sempre molto, ma quelli più avanti con l’età hanno un gesto sempre più piccolo, perché sanno l’essenziale. Spesso l’importante è imparare cosa non fare. Comunque io sono cresciuto molto con Martha Argerich, una musicista che porterò sempre nel cuore. Da lei e dai suoi amici con i quali ho condiviso molti concerti ho imparato molto: per esempio come stare sul palco e come avere un approccio veramente naturale con la musica, un pensiero libero. Ho sempre cercato di circondarmi di musicisti che ne sapessero più di me, mi piace definirmi un ignorante curioso.”

 

Oltre a lei sono candidati ai Grammy altri Italiani, ma nella categoria ‘Miglior nuovo artista’: sono i Måneskin. Cosa pensa di loro?

 

“Mi piacciono molto, fanno bella musica ed è una coincidenza simpatica, anche perchè io vengo dall’heavy metal.”

 

Come? Ci racconta questa parte della sua vita musicale?

 

“Andavo abbastanza male alle scuole medie e dopo una bocciatura mi resi conto che dovevo fare qualcosa nella vita. Chiesi al maestro di chitarra dell’oratorio di poter frequentare le sue lezioni. Lui inizialmente non mi voleva, perché mi considerava una testa calda. Per fortuna lo convinse mio padre, che lavorava nell’autogrill dove il maestro andava a mangiare. Dopo un mese di lezioni insegnavo agli altri e formai un gruppo, che suonava Guns N’ Roses e Metallica. Provai a entrare al conservatorio, ma mi presentai alla prova d’ammissione con la chitarra elettrica. Me ne feci prestare una da un altro ragazzo e alla prova eseguii ‘Nothing else matters’ dei Metallica, dicendo che era una mia composizione. Il maestro mi disse ‘ Lei ha un talento incredibile, ma questa musica ha un’impostazione strana. A noi servono contrabbassisti, vuole provare?’  Io volevo rinunciare, ma mio padre, ancora lui, mi convinse ad entrare nella classe di contrabbasso. Da quel momento ho avuto una compagna di vita. La musica mi ha salvato. Ora  non tocco più il repertorio rock, ma credo che sia ora che anche un musicista classico sappia apprezzare tutta la musica, se ben fatta. È giusto differenziare i repertori e gli ambienti, ma con la giusta eleganza si possono trovare ponti culturali.”

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