Nick Cave: "ll mio pubblico mi ha aiutato a gestire i lutti"

Musica

Manuel Santangelo

Dopo la tragica morte dei figli Arthur e Jethro il cantante ha vissuto il momento più difficile della sua vita. Se è riuscito a sopravvivere al dolore parte del merito va al pubblico, che lo ha supportato e gli ha dato la possibilità di “sfogarsi” in concerto

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Nel premiato documentario del 2014 Nick Cave - 20.000 Days On Earth, il protagonista torna spesso sulla necessità di riconsiderare quanto si è vissuto in passato, arrivando a dire: “La memoria è quello che siamo e credo che la propria anima e il motivo stesso di essere in vita siano legati alla memoria”. Poco tempo dopo queste dichiarazioni, il ricordo del passato si è fatto per il frontman dei Bad Seeds però troppo doloroso per apprezzarlo. Nella sua memoria si è impresso per ben due volte il momento più tragico che possa vivere un genitore: quando nel 2015, il figlio adolescente Arthur perde la vita cadendo da una scogliera, quell’affetto per il passato scompare. Quando nel 2022 anche l’altro erede Jethro lascia questo mondo a soli 31 anni il ricordo diventa solo un doloroso abisso. Per sopravvivere Nick Cave trova un’unica medicina: continuare a esibirsi dal vivo, cercare il contatto con quel pubblico che non lo ha mai abbandonato e provare a elaborare quel male dentro che comunque non andrà mai davvero via.

Nick Cave e l’esorcizzazione collettiva del dolore

Tra qualche giorno uscirà il libro Faith, hope and carnage un lavoro nato da 40 ore di conversazione tra l’artista australiano e il giornalista dell’Observer Seán O’Hagan, Un’opera autobiografica che è stata presentata come un viaggio nel “mondo interiore di Cave per riflettere su ciò che davvero muove la sua vita e la sua creatività”.Nel volume si toccheranno diversi temi come arte, musica, libertà e lutto partendo dalla travagliata vita privata del cantante e scrittore. Un’opera personale di cui si è parlato durante un’intervista del New York Times, in cui la parte più significativa è quella in cui si è toccata la particolare elaborazione dei lutti cercata da Nick Cave. Il cantante è riuscito a sopravvivere all’abisso grazie alla condivisione del dolore con chi lo ha sempre supportato, non solo per essere l’autore di brani meravigliosi come Into My Arms: “Dalla morte di Arthur, sono precipitato nel luogo più oscuro che si possa immaginare, dove era impossibile vedere oltre quella disperazione”, ha raccontato Cave spiegando come ce l’abbia fatta a salvarsi alla fine anche: “Grazie alla reazione delle persone che continuavano a scrivermi cose tipo è successo anche a me. È stato toccante”.

Cave d’altronde ha ormai da tempo costruito un rapporto meraviglioso con i suoi fan, quasi paritario e migliorato ulteriormente dopo la nascita di The Red Hand Files. Dal 2018 in questo blog il poliedrico artista scrive ancora oggi riflessioni e commenti sui più svariati argomenti, partendo da spunti a volte anche molto generici o personali che gli vengono dai messaggi dei fan. In questo spazio più volte ha affrontato il tema della perdita, costruendo sempre conversazioni virtuali che trasudavano empatia e voglia di cercare un qualche senso, per quanto possibile, dietro la tragedia.

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Nick Cave e la liturgia curativa del live

Gli scambi mediati dalla presenza di un computer hanno aiutato Nick Cave, il quale però ha avuto bisogno anche di confrontarsi faccia a faccia con il suo pubblico. L’attività live ha avuto un importante effetto benefico sul cantante, cui evidentemente la solitudine fa solo male fungendo da amplificatore dei brutti pensieri: “Il mio pubblico mi ha aiutato tantissimo e oggi quando mi esibisco sento che sto restituendo qualcosa. Quel che faccio artisticamente è un modo per ripagare questo debito. L’altro mio figlio è morto. È difficile parlarne, ma sono i concerti e questo atto di sostegno reciproco a salvarmi. La gente mi chiede: ‘Ma come fai ad andare in tour?’. Per me è l’esatto contrario. Come potrei non farlo?”

 

Nel tempo d’altronde Cave è maturato e ha cambiato anche il modo in cui si interfacciava nei concerti, cercando via via un legame più diretto con chi è dall’altra parte del palco. Come racconta lui stesso nell’intervista: “Un tempo mi piaceva da matti erigere una barriera tra band e pubblico. Che ci piacesse o meno, nei primi tempi la gente che veniva a vederci fondamentalmente ci odiava. Questo attrito tra band e pubblico era la fonte dell’energia anarchica dei Birthday Party. Oggi è l’esatto contrario”. Se non ci credete, basta andare a un live del cantante, anche autore di romanzi come E l’asina vide l’angelo. Sono esperienze collettive in cui neanche le interferenze atmosferiche bastano a rompere l’intensità dello scambio emotivo tra artista e pubblico, come possono testimoniare i presenti al live del 4 luglio di quest’anno all’Arena di Verona funestato dalla pioggia.

 

Sembra ormai che tutta la vita dell’artista sia subordinata all’obiettivo di dimostrare che una via d’uscita esiste, anche alle tragedie più immani. Tutta l’opera  e l’esistenza pubblica di Nick Cave sembra diventata ormai quasi un inno di resistenza alla crudeltà della vita: “Non so come spiegarlo, ma sento che esiste una via d’uscita. Quando Arthur è morto la cosa terrificante era che sembrava come se non ci fosse alternativa a quella sensazione. Non voglio che tutte le mie conversazioni e tutto ciò che sono ruoti attorno alle perdite dei miei figli. Ma mi sento invece in dovere di far sapere alle persone che stanno vivendo la stessa situazione di dolore che c'è una via d’uscita”.

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