L'alienazione si esorcizza con The Name of this band in Smile

Musica

Fabrizio Basso

Il disco della band torinese rispecchia pienamente lo spirito della band che racconta la monotonia della vita contemporanea attraverso canzoni da tre minuti, capaci di unire al nervosismo post-punk della sezione ritmica e la melodia di una chitarra jingle-jangle una voce empatica, potente e riflessiva. L'INTERVISTA

Un disco che è il racconto, immaginario e immaginifico, di un viaggio in un mondo che guarda al futuro ma vuole andarci con una una astronave di latta. La musica degli Smile (Michele Sarda alla voce, Hamilton Santià alla chitarra, Francesco Musso alla batteria e Mariano Zaffarano al basso) è permeata da uno strato di alienazione e straniamento: un indie-rock con accenni jangle e post punk che racconta un disagio tanto personale quanto collettivo di una società sospesa senza apparente via d’uscita. Con un sound che ricorda R.E.M. e The Smiths, gli Smile creano musica al tempo stesso melodica ed esplosiva per raccontare un quotidiano fatto di burocrazia, incapacità diazione, bollette da pagare e precarietà. Di quotidianità, illusioni, disillusioni e musica ho parlato con Hamilton Santià.

Quando è nato l’album? E voi come nascete come gruppo?
Nasciamo nel 2019 dopo che io e Michele avevamo già avuto una esperienza musicale nel 2004 da matricole all’università. Aspettavamo il momento di tornare a fare musica e in Mariano e Francesco abbiamo trovato la sezione ritmica ideale, c'è stata una chimica immediata. Abbiamo iniziato a suonare seguendo le nostre idee e il disco nasce al 75 per cento prima del lockdown, per fortuna.
Le tematiche crude che trattate sembrano in contratso col nome che vi siete dati?
Smile nasce dal fatto che tutti nomi più trendy e indicizzabili o erano presi o non ci  piacevano: quindi abbiamo cercato una parola elementare, normale, fraintendibile…tutti si fanno troppi pensieri, noi abbiamo cercato la semplicità.
La vostra musica può portare oltre l’alienazione?
Biosgna provare a muoversi, le band puntano a un pubblico in carne e ossa. Usciamo con l'album in remoto ma vogliamo metterci in discussione in un momento di stasi. Vogliamo essere un antidoto, dare una scossa.
Quella che stiamo vivendo è una nuova normalità o è una parentesi aspettando che torni la vecchia normalità?
La nostra speranza è che senza la distanza sociale ci possa essere la voglia di stare insieme, che i cubicoli di plastica nei quali viviamo lo smart working ci liberino dallo stato di sospensione. Le persone devono essere un antidoto loro stesse alla situazione. E comunque se avessi la risposta esatta alla tu domanda la venderei ai governi!
Quali sono i vostri status symbol, se ci sono?
Viviamo di feticismi come tutti. Un suono immediato e privo di fronzoli è una costruzione alternativa, io la vedo in termini dialettici. La polvere negli ingranaggi è la nostra musica. Oggi ci sono pochi gesti artistici che possono essere reputati innocenti: fa parte delle regole di ingaggio.
How the race is done: come si fa la gara della vita?
Giorno per giorno. Tutto nasce in sala prove dopo la giornata di lavoro di quattro persone di circa 35 anni in cerca di un orizzonte che non sia lo schermo del computer. Una reazione nervosa e nevrotica che deve portare a fare un passo più in là.
Quello che stiamo vivendo porterà una generazione di Broken kid?
Due anni in solutidine possono creare scompensi, mi auguro che si sarà una situazione che ci eviti quella generazione di ragazzi (inter)rotti.
Time to run è un brano da buona la prima: quanto l’improvvisazione incide sulla vostra musica?
La nostra missione sono l'unicità e il primato della canzone. Tutto nasce da idee e improvvisazioni poi con lo scalpello togliamo il superfluo. Abbiamo un suono nervoso e immediato creato per sottrazione.
Torino con Lione e Ginevra forma un triangolo demoniaco…la vostra musica ne è parte?
Alcuni di noi sono appassionati di cose esoteriche ma in generale siamo materialisti. Siamo nati quando le fabbriche morivano e la città si svuotava. Si sente in giro l'esoterismo ma noi puntiamo a riempire i vuoti nei fantasmi industriali.
Il lockdown limita la vostra visione: quando finirà diventerete reggaeton?
In quel momento si verrà a patti, ci siamo detti che il primo che fa reggaeton uccide l’altro. Battute a parte soffriamo la mancanza di confronto e dialogo che è il sale delle espressioni artistiche. E’ un problema generale, se non ci si parla finisce la musica, prima o poi. E' un periodo di rischi ma ci sono anche belle sfide da cogliere.
State preparandovi per i live?
La speranza è che al più presto si torni in piazza, ci piace suonare la musica come la vorremmo vedere da pubblico. Sui social per fortuna non si ferma mai e ora sono un archivio prezioso. La speranza che queste cose generino nuove canzoni e musica e rinnovata possibilità di incontro. Intanto noi da remoto ci mandiamo idee, siamo tutti dotati di device elettronici che attutiscono i suoni, con buona pace dei vicini. E anche se è un po' che che non ci troviamo in studio, quando accadrà sarà come essersi lasciati la sera prima!

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