Paolo Fresu, elogio della Poesia. L'intervista

Musica

Bruno Ployer

Il jazzista amato da critici e pubblico festeggia i suoi 60 anni con una raccolta discografica e un concerto. "Non possiamo fare a meno della Poesia - ci dice- soprattutto perché serve ad affrontare il presente".

Venti anni fa il New York Times, recensendone un disco, chiamava Paolo Fresu “Il trombettista dalla Sardegna”. Il giudizio fu più che buono (“Esecuzione impeccabile”) per il musicista di Berchidda (Sassari), già allora protagonista del jazz italiano ed europeo. Dopo circa quarant’anni di carriera Fresu è una figura di riferimento della musica libera. Non solo per una ristretta cerchia di intenditori, ma anche per il pubblico più vasto, che acquista i dischi e ha frequentato, finchè il Covid non lo ha impedito, i suoi tanti concerti. Paolo Fresu viene da un vissuto intenso e impegnativo, ma allo scoccare dei suoi sessant’anni sembra tutt’altro che stanco: nell'intervista con lui sgorga una vulcanica energia. Ce ne accorgiamo anche ascoltando la varietà di suoni, atmosfere e musicisti dei suoi album appena pubblicati.

 

 

Paolo Fresu, il 10 febbraio significa per lei non solo il compleanno numero 60, ma anche l’uscita del cofanetto P6OLO FR3SU per la sua etichetta Tǔk Music. Nello stesso girono va in rete il concerto dal titolo MUSICA DA LETTURA. Sembra il modo migliore per celebrare un compleanno importante, non è così?

“Sì, è il compleanno di un musicista e quindi dobbiamo fare musica. In questo caso c’è un triplo disco e un concerto registrato all’Archiginnasio di Bologna, che oggi è la città che mi ospita. Secondo me quando c’è un compleanno è bello regalare agli altri, più che a sé stessi. Il mio compleanno è dunque un modo per dare agli altri ciò che mi è stato dato: tanto, devo dire.”

 

Cosa metterebbe per primo in ordine di importanza tra ciò che le è stato dato in questi 60 anni?

“Innanzitutto i valori che mi sono stati consegnati dalla mia famiglia, una famiglia umile. Mio padre faceva il pastore e contadino in una Sardegna rurale molto complicata in quegli anni. Nonostante tutto, quando se ne è andato a quasi 90 anni ci ha lasciato una grande serenità. Ho visto tante cose in giro per il mondo, non tutte belle, mi è rimasto dentro l’insegnamento prezioso dei valori fondamentali, come il rispetto e la solidarietà. C’è anche il senso del dovere, ma questo è un valore che alcune volte mi pesa (Lo dice con un sorriso, ndr). Mi viene da lontano, da quando avevamo poco in famiglia e questo poco andava coltivato e preservato. Sono gli stessi valori che metto nelle mani di mio figlio: credo che abbiano poco a che fare con i nostri giorni, ma riguardano l’essere umano come persona.”

 

Quale musica ascolta in questo 2021 dei suoi sessant’anni?

“Io ascolto molto, perché sono curioso e perché ricevo molto materiale. Mi mandano registrazioni dei gruppi per il festival che organizziamo in Sardegna e anche perché mi chiedono di scrivere note di copertina, cosa che faccio molto volentieri. Ascolto tutto ciò che mi viene spedito, perché credo sia importante farlo, come è importante dare un cenno su ciò che si è ricevuto, soprattutto ai giovani, che mettono tanta energia e tempo nei dischi che mi mandano. Altri mi chiedono un consiglio e io lo do molto volentieri. Ascolto quindi molte cose diverse: del resto il Jazz è per antonomasia la musica della libertà, dell’apertura e della curiosità. Ascolto anche musica classica, amo molto il Barocco, poi musica etnica e un po’ di Pop e Rock. Mi piace ascoltare la buona musica e spero che anche coloro che comprano i miei dischi ascoltino buona musica! In questo cofanetto appena uscito ci sono tre progetti completamente diversi tra loro. “Heartland” è stato pubblicato venti anni fa: è una collaborazione con musicisti belgi e c’è una ritmica eccezionale, quella di Keith Jarret. Il secondo album è "The sun on the sea" con Jaques Morelenbaum, grande violoncellista brasiliano. Lo abbiamo registrato a distanza per le restrizioni del Covid: lui a casa sua a Rio De Janeiro, io e Daniele di Bonaventura in Italia. Il terzo disco è “Heroes”, un tributo a David Bowie con la voce di Petra Magoni: è quasi Pop. Vorrei che questi tre progetti così differenti fra loro fossero la fotografia di come io sono oggi.  Mi sento un musicista aperto, che ha tanta voglia di fare, anche in questo tempo così difficile. Vorrei anche dimostrare quanto la musica sia importante per la nostra vita. Si è capito che non si può vivere senza arte e cultura, ma purtroppo questo non ha risolto la crisi dei lavoratori dello spettacolo. Dovremmo farne una bandiera, perché la cultura non arricchisce solo noi, ma anche il nostro Paese, producendo il 16 per cento del PIL. “

 

Parliamo di “Heroes”. Non trova che David Bowie abbia incarnato anche lo spirito Jazz con quella sua capacità di trasformare e trasformarsi?

“Assolutamente sì. Lo si vedeva anche dai suoi abiti di scena. Bowie è stato un grande personaggio del ‘900 e in parte anche di questo secolo, anche perché era se stesso: quegli abiti non servivano a nascondere una persona, ma a raccontarla meglio. “Heroes”, “Space Oddity” e tanti altri suoi brani ci testimoniano che era un artista che viveva il presente e che, come tutti gli artisti, aveva la responsabilità di traferire questo presente agli altri. David Bowie era anche un jazz-man e non solo perché da giovane suonava il sassofono, ma anche perché l’ultimo disco, “Black Star”, è realizzato tutto con jazzisti. Bowie ha abbattuto tutti i paletti per andare verso l’essenza. C’è anche da dire che la musica di Bowie è complessa perché il suo pensiero camminava veloce. Averlo interpretato, aver messo le mani nella sua vita e nella sua musica è stata per me un’esperienza molto impegnativa.”

 

Crede che nella musica ci sia ancora spazio per la poesia?

“Credo che ci debba essere, nella musica come in qualsiasi cosa. Se non c’è poesia manca un’ idea fondante della vita e del futuro. La poesia è fondamentale. Ce l’aveva anche mio padre, che collezionava parole antiche, quelle che si stavano perdendo. Quando era in campagna per il suo lavoro le annotava su un foglietto e poi le metteva in un quaderno, di quelli che si usavano a scuola tanti anni fa. Prima di andarsene mi ha raccontato che quando non aveva la carta prendeva un pezzetto della pianta della vite e scriveva nella terra le prime lettere. Il giorno dopo si sarebbe ricordato la parola e l’avrebbe annotata nel quaderno. Quella era poesia del quotidiano. Oggi senza poesia sarebbe impossibile affrontare questo momento così complesso. Possiamo trovare la poesia nelle cose belle e in quelle brutte. Credo che sia necessaria soprattutto nella bruttezza: ci aiuta a comprendere quanto una vita troppo bella sarebbe inutile e noiosissima. Trovare la bellezza anche nel “torbido”, per usare una parola di De Andrè, credo che sia il modo più bello per affrontare il presente.”

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