Francesco Renga si mette a nudo raccontando L'Altra Metà di se stesso, che è poi una lettura universale sulle vicende dell'amore. Aspettandolo in concerto all'Arena di Verona (27 maggio) e al Teatro Antico di Taormina (13 giugno), lo abbiamo incontrato e intervistato
Non capita tutti i giorni di incontrare un artista, un amico, che sa mettersi in gioco, che sa raccontare i suoi sentimenti e la sua vita da un punto di vista intimo e che, attraverso le sue parole e la sua musica, trasforma in concetti universali nei quali ognuno può riconoscersi. Francesco Renga, cinquantenne da pochi mesi, parla ai ventenni come ai settantenni, e lo fa con questo nuovo album che si intitola L'Altra Metà. Ho ascoltato in studio di registrazione con lui alcune canzoni e le abbiamo commentate, ma soprattutto (e aspettando di vederlo dal vivo all'Arena di Verona...altra data pre-estiva a Taormina) abbiamo parlato di vita.
Francesco il primo elemento di novità è la cifra stilistica del linguaggio.
Ho voluto trovare un linguaggio nuovo germogliato dalla nuova generazione di cantautori perché hanno un approccio diverso da quello dei mie all’epoca.
Da dove sei partito con questa necessità?
Rispettoso della mia età e della mia storia: da qui è partita la ricerca e ora sono felice di poterne condividere i risultati.
C'è un punto di partenza?
Prendiamo come paradigma Il mio giorno più bello del mondo che è quello che ha fatto partire il meccanismo di trovare un linguaggio più popolare.
Era il 2014.
Infatti questi anni mi hanno permesso di riassettarmi. L'Altra metà è un disco scritto in due anni di tentativi ed esperimenti, ma c’è una scrittura ex novo: Finire anche Noi per me sarebbe stata inconcepibile fino a qualche tempo fa.
C'è qualcosa che hai paura possa finire?
Vorrei non finisse mai possibilità di fare dischi e canzoni. L'artista è un disadattato che sa esprimere emozioni. Occorre trovare un linguaggio contemporaneo. L'Altra metà lo riascolto spesso con felicità: è davvero raro che la sera dopo avere messo a letto i ragazzi ascolti qualcosa di mio.
Ora che succede?
Vorrei trovare una platea che abbia voglia di condividere con me i pensieri contenuti nel disco.
I tuoi figli apprezzano?
Sono felici, la selezione è passata attraverso le loro orecchie. E’ un lavoro contemporaneo. Del precedente lavoro Tempo Reale ero solo un interprete, in realtà avevo cose mie ma quando percepisci insieme al tuo produttore che hai una canzone anche bella che però ha contenuti che hai già detto e ti arriva un autore con una cosa più moderna...beh devi avere l'umiltà di capire.
Prima o Poi la firmi con Gazzelle e Luca Serpenti.
Quando la canzone mi è arrivata secondo me mancava una terza parte ma lui era in uscita col disco e impegnatissimo. Ci siamo ritagliati un giorno in studio a Milano e abbiamo trovato la terza parte.
L'Odore del caffè è co-firmata con Ultimo.
Mi ha mandato una canzone finita a pianoforte e voce. Ma non mi apparteneva per l’età e gli ho chiesto se potevo rimaneggiarla.
Si sente la mano in produzione di Michele Canova.
E' riuscito ad avere la possibilità per far sedimentare il tempo e scegliere le canzoni più papabili, trovare le soluzioni migliori. Ci sono molti colori ma il quadro è univoco. E’ un pregio di questo lavoro.
C'è tanto amore.
Declino l'amore che mostri, il monstrum che è dentro ognuno di noi. Quando trovi la persona con la quale lo liberi…
Però può andare a finire male. Che paure hai?
I miei mostri restano l’abbandono, l'assenza e il senso di inadeguatezza, sono tutti cardini della mia poetica.
Melanconia allo stato puro.
L’artista sbroglia i suoi nodi, se invece sono felice e contento vado al bar con gli amici.
Musica come terapia?
Sì. Il vero motivo per cui hai scritto quella canzone neanche l'autore talvolta lo coglie fino in fondo e dunque col riascolto trovo sfumature che metabolizzo molto tempo dopo. L'arte a volte è proiezione di qualcosa che non è mai avvenuto.
L'album si chiude con Oltre, che incita a gettare il cuore oltre l'ostacolo ma sembra che tu resti solo.
E' così, alla fine resti solo devi sperare di trovare qualcuno che si affacci su di te. Siamo circondati da persone che conosci poco, nelle quali riponi una fiducia che solo in parte ti viene ripagata e tu magari invece ce la metti tutta. E allora ti dici che ne sanno di me se ragionano solo per loro?
Ragionamento sottili. Merito del nuovo linguaggio?
C’è una rivoluzione testuale in essere. Cose si perderanno altre andranno avanti, ma è cambiato il gusto. Mi sono trovato altre volte in momenti di passaggio: a fine anni Ottanta ci siamo trovati a fare gli sfigati del rock che non facevamo parte di nulla. E’ bello essere protagonisti: sei così avulso dal contesto che alla fine è il contesto che viene a cercarti.
La tua storia musicale fa di te un temerario.
Ho fatto cose folli. Andammo a Sanremo con L’Uomo che Ride…e ora con Aspetto che torni, che poi è il più vicino al mio passato. Aspetto che torni è un atto rivoluzionario: la ho presentata e cantata il giorno prima dell’uscita dei nomi per Sanremo 2019.
Una rivoluzione fu Orchestra e Voce.
Una grande rivoluzione. E pensare che qualche mese prima sono stato ancora al Festival Uomo senza Età che dista anni luce dal progetto di orchestra e voce.
Inquieta un po' Finire anche noi.
E invece è grande speranza…perché si rinasce di nuovo.
Parli di sbaglio perfetto: ne hai uno da raccontare?
Abbiamo scritto 2020 con i Timoria nel 1995 e ci dicevamo chissà come saremo nel 2020...che poi è fra pochi mesi. Se mi guardo allo specchio sono sempre lo stesso e invece ai tempi mi immaginavo come Babbo Natale.
Definisci L'Altra metà.
Un disco spartiacque.