Wajib - Invito al Matrimonio: la recensione del film

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Fabrizio Basso

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Occidente e tradizioni palestinesi. Un matrimonio e gli inviti da consegnare, manualmente. Questo è Wajib - Invito al matrimonio, film che aprirà il prossimo 10 aprile a Firenze il Middle East Now Festival e che è stato segnalato agli Oscar 2018 come miglior film straniero per la Palestina anche se alla fine non è entrato nelle nomination. Lo abbiamo visto in anteprima e ve lo raccontiamo. Nelle sale italiane dal 19 aprile

(@BassoFabrizio)

Poche volte si riesce a entrare nel fascino di mondi lontano come avviene guardando questo film, perdendosi in Wajib - Invito al Matrimonio. Diretto da Annemarie Jacir, con protagonisti Mohammad Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio nella vita e nel film, ha vinto il Festival Internazionale del cinema di Dubai come Miglior Film e il premio come Miglior Attore ex aequo per Mohammed e Saleh Bakri, ora aprirà il Middle East Now Festival di Firenze il 10 aprile. E' ambientato nella comunità cristiana di Nazareth, in Palestina e sottolinea le criticità e le difficoltà del vivere in una terra martoriata, in cui tradizione e idealismo non sempre riescono a convivere. Wajib in italiano significa dovere e fa riferimento alla tradizione palestinese secondo la quale il padre e i fratelli della sposa hanno il dovere sociale di consegnare personalmente gli inviti di matrimonio. Un gesto solenne e culturalmente importante che dà vita a un road-movie profondo ed emozionante, che esplora la complessità del rapporto padre-figlio nel confronto tra liberà e dovere, modernità e tradizione.

Il film parte dal concetto di abbandono, che in quelle terre è un oltraggio ben più pesante rispetto all'occidente, anche il meno evoluto. Abu Shadi ha 65 anni e la sua vita scorre in Palestina, per l'esattezza a Nazareth, luogo simbolo della tradizione cristiana. Assorbito, almeno apparentemente, il trauma per la fuga della moglie verso l'America tentatrice insieme a un altro uomo, tentatore, guarda come a un suo orizzonte personale il matrimonio della figlia Amal. La festa si avvicina e lui richiama dall'Italia, per aiutarlo nei preparativi, il figlio Shadi, architetto affermato che guarda con molto distacco e poca nostalgia alla terra dei suoi avi. Ma la sua occidentalizzazione non lo preserva da un antico rito che oltre confine si chiama dovere e lì invece è ribattezzato Wajib. Significa che i famigliari devono consegnare a mano le partecipazioni al matrimonio a tutte le persone che sono invitate. E' vissuta come una forma di rispetto.

Shadi è scettico, la lontananza ha fatto sbiadire la storia ma capisce che non può sottrarsi al rito. E a questo punto il film prosegue su due binari: da una parte la consegna del prezioso cartoncino, momenti che esulano da ruoli sociali e religioni, momenti in cui si sorride all'imminente matrimonio. Ma quando una porta si chiude e c'è da muovere dei passi verso la successiva, le labbra si fanno serrate, le parole si accendono, padre e figlio non sono proprio allineati. Uno è ormai pregno di cultura occidentale, l'altro ha Nazareth e la Palestina come centro del mondo. Sembra una crociata umana, tra due generazioni e due epoche pur essendo solo tre i decenni che li separano. Ogni partecipazione consegnata allarga la forbice tra i due, più sono vicini più si sentono distanti. Ormai non è possibile chiudere un occhio, o anche entrambi, quel matrimonio s'ha da fare ma prima deve e4sserci il confronto tra padre e figlio. Qui ci fermiamo perché lo spettatore deve vivere da terzo (in)comodo quello che accadrà a Nazareth. Palestina. Dove non ci sono più né mangiatoie, né un bue né un asinello. Ma solo un padre e un figlio così distanti così vicini.

 

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