Playing God, corto in shortlist agli Oscar: Burani e Gheller dalla parte di chi è plasmato
Cinema
Nato da una folgorazione e sviluppato in sette anni, Playing God è il corto in stop motion di Studio Croma Animation entrato nella shortlist degli Oscar®. Il regista Matteo Burani e la produttrice e animatrice Arianna Gheller raccontano la genesi del progetto, la scelta di seguire lo sguardo degli emarginati, il rifiuto di ogni consolazione facile e una visione dell’animazione come mezzo espressivo adulto, capace di interrogare il presente. Il corto è visibile gratuitamente su YouTube fino all’11 gennaio 2026
Playing God nasce come un gesto minimo e diventa un’opera radicale. In nove minuti di stop motion, il corto di Studio Croma Animation – unico titolo italiano nella shortlist degli Oscar® – racconta la fragilità di chi viene plasmato, escluso, giudicato. Un film costruito in sette anni di lavoro artigianale, che rifiuta scorciatoie estetiche e narrative per interrogare il presente: il potere, l’emarginazione, la comunità. In questa intervista, il regista Matteo Burani e la produttrice e animatrice Arianna Gheller ripercorrono la genesi del progetto, le scelte artistiche e politiche, e le difficoltà di fare animazione adulta e non riconciliante in Italia oggi.
Playing God nasce come un gesto minimo e diventa un’opera radicale. In nove minuti di stop motion, il corto di Studio Croma Animation – unico titolo italiano nella shortlist degli Oscar® – racconta la fragilità di chi viene plasmato, escluso, giudicato. Un film costruito in sette anni di lavoro artigianale, che rifiuta scorciatoie estetiche e narrative per interrogare il presente: il potere, l’emarginazione, la comunità. In questa intervista, il regista Matteo Burani e la produttrice e animatrice Arianna Gheller ripercorrono la genesi del progetto, le scelte artistiche e politiche, e le difficoltà di fare animazione adulta e non conciliatoria in Italia oggi.
Approfondimento
Oscar 2026, Playing God è il corto italiano in shortlist
Intervista a Matteo Burani e Arianna Gheller:
Playing God è un progetto nato da una folgorazione o costruito nel tempo?
Matteo Burani:
È nato da una folgorazione, e me lo ricordo molto bene. Nel 2017 l’idea iniziale era quella di realizzare un brevissimo sketch in stop motion, quasi un esercizio di stile: uno scultore che crea una scultura, i due che si guardano. Doveva durare un minuto e mezzo ed essere pubblicato su YouTube.
Poi però ci siamo resi conto che quell’immagine conteneva molto di più. Da lì è iniziato un lungo processo di sviluppo: sette anni in totale, di cui almeno cinque e mezzo dedicati a capire come produrre il film e cosa stesse davvero diventando. La storia si è ampliata, sono entrati gli altri corpi, la dimensione collettiva. È stato un lavoro di osservazione degli altri, ma anche di noi stessi. Una visione intima, personale, agrodolce, inevitabilmente figlia del nostro tempo.
Playing God non racconta chi plasma, ma chi viene plasmato. È una scelta narrativa o anche etica e politica?
Matteo:
È stata una scelta naturale. La vera domanda è: tu sei più scultore o più scultura? La risposta è che siamo entrambe le cose. Siamo carnefici e vittime allo stesso tempo.
Viviamo in una collettività e non volevamo raccontare semplicemente la banalità del potere. Anche perché lo scultore è cieco: non vede nemmeno quello che fa. Concentrarci su chi viene plasmato era inevitabile, perché è lì che riconosciamo la nostra esperienza quotidiana.
La scelta della stop motion e i tempi lunghissimi di lavorazione sono anche una risposta alla velocità con cui oggi consumiamo immagini e corpi?
Arianna Gheller:
Assolutamente sì. Fin dall’inizio volevamo creare un’opera con una qualità artistica e tecnica forte, riconoscibile anche all’estero. Ma volevamo anche lanciare un messaggio.
In un momento storico dominato dai social e ora anche dall’intelligenza artificiale, scegliere una tecnica così lenta e manuale è quasi un atto rivoluzionario. È paradossale, perché stiamo parlando di una tecnica che sta alle origini del precinema.
Quando parliamo con i più giovani e ci dicono che faticano a mantenere la concentrazione, rispondiamo sempre: provate l’animazione. È un esercizio di attenzione radicale, va contro la soglia di distrazione di oggi. Per noi questo aspetto era importante quanto il risultato finale.
Il finale evita qualsiasi consolazione facile. Quanto è stato complesso raccontare un’idea di comunità senza renderla rassicurante?
Matteo:
È stata la parte più difficile. Non c’è dialogo, quindi ogni secondo doveva funzionare a livello di comunicazione non verbale.
Inizialmente il film finiva con la caduta del protagonista sul tavolo. Fine. Ma mancava qualcosa. Mancava il senso profondo: il fatto che ci fosse sempre stato un posto per lui, e che ci sarebbe stato anche per chi verrà dopo.
Non volevamo però un “benvenuto a casa”. Doveva restare un dubbio, una sensazione ambigua. È una caduta dal piedistallo dell’ego: perdi lo spotlight e sei costretto a vivere una vita comune.
Abbiamo lavorato moltissimo anche sulla musica, per evitare un finale puramente horror e costruire invece una chiusura che stringesse emotivamente lo spettatore senza spiegargli tutto.
Il Compianto sul Cristo morto è un riferimento chiave. Da dove nasce e quali artisti vi hanno influenzato?
Matteo:
L’artista che più ha influenzato Playing God è Alberto Giacometti. È una presenza costante nel mio percorso, nelle forme, nell’idea di figura, ma anche nella sua biografia.
C’è una celebre intervista degli anni Sessanta in cui Giacometti dice che tutto ciò che fa sono “bellezze mancate”: vorrebbe fare figure vere, ma non ci riesce mai. Questa frustrazione è lo scultore del film, un Giacometti oscuro.
Il Compianto, invece, è un imprinting personale. Mio nonno aveva una bottega di calzolaio davanti alla chiesa di Santa Maria della Vita, a Bologna, e da bambino mi portava sempre lì. È una scultura del Quattrocento con una potenza emotiva fuori dal tempo. Quelle figure che piangono Cristo sono, per me, gli altri corpi del film: quelli che compiangono il protagonista.
La vostra collaborazione sembra basata su una forte simbiosi. Com’è la vostra dinamica creativa?
Arianna:
Lavoriamo insieme da nove anni e passiamo praticamente dodici ore al giorno nello stesso studio. Con il tempo si è creata una vera simbiosi: spesso a Matteo non serve nemmeno spiegarmi cosa vuole in una scena, lo capisco immediatamente. È un rapporto che funziona perché c’è fiducia reciproca.
Matteo:
Ci siamo conosciuti nel 2017 proprio grazie a Playing God, ed è stato il progetto che ci ha fatti crescere insieme, come artisti e come persone. Noi abbiamo evoluto il film, ma allo stesso tempo il film ha evoluto noi. In questi anni abbiamo creato una sorta di “cervello unico”.
Arianna:
Questa simbiosi si estende anche ai collaboratori dello Studio Croma. Ci piace definirci “pirati”, perché andiamo contro tendenza. Abbiamo costruito uno studio di animazione in Italia in un contesto difficile, insieme a un gruppo che ha sposato la stessa visione. La candidatura agli Oscar è anche il risultato di questo lavoro collettivo.
Questo risultato è un segnale per chi oggi fa animazione in Italia?
Matteo:
Sì, ma mette anche in luce un problema culturale profondo. In Italia manca una vera cultura dell’animazione e, più in generale, una visione sull’export culturale. Il cinema non viene considerato una risorsa strategica.
Finché chi decide non avrà gli strumenti per leggere la complessità del linguaggio cinematografico, le nuove idee continueranno a crescere altrove. Basta guardare la Francia: quest’anno ha decine di titoli in shortlist agli Oscar. L’ultimo caso italiano paragonabile risale al 1991, con Bruno Bozzetto. È assurdo.
Le istituzioni che dovrebbero promuovere il cinema spesso soffocano le nuove idee. Se non guardi fuori, se non esci dal sistema, fai fatica persino a immaginare un’alternativa.
Arianna:
Se avessimo ascoltato tutti i consigli ricevuti all’inizio, Playing God non sarebbe mai esistito. Sarebbe stato annacquato.
L’unica vera risposta è fare: creare il proprio spazio, costruire una comunità, non paralizzarsi. È l’unico modo per cambiare le cose.
State già pensando a un progetto successivo, magari un lungometraggio?
Arianna:
Ci piacerebbe moltissimo. Stiamo già scrivendo, ma un lungometraggio in stop motion richiede assetti produttivi internazionali e budget molto complessi.
Matteo:
Sarà una strada in salita, come sempre. Prima ci saranno altri passaggi di crescita, poi, quando saremo pronti artisticamente e imprenditorialmente, lo faremo. Le idee che stanno nascendo sono una bella bomba.
Playing God e l’umanità imperfetta: nessuna redenzione, solo comunità
Playing God non offre soluzioni, né redenzioni individuali. Lascia lo spettatore dentro una comunità imperfetta, dove l’accoglienza non cancella il trauma ma lo rende condivisibile. È un film che chiede tempo — per essere realizzato, per essere guardato, per essere metabolizzato — e che rifiuta la logica del consumo rapido delle immagini. Anche per questo Burani e Gheller hanno scelto di renderlo visibile gratuitamente su YouTube fino all’11 gennaio 2026: non come gesto promozionale, ma come prosecuzione naturale di un dialogo iniziato nei festival.
Forse allora non stupisce che, nei ringraziamenti finali del film, Matteo Burani abbia scelto di affiancare Alberto Giacometti e James Cameron. Un gesto scherzoso solo in apparenza, che rivela un rapporto non reverenziale con i propri riferimenti: amarli, sì, ma senza farsi schiacciare. Anche i maestri, come gli dèi evocati da Playing God, possono essere guardati dal basso — e forse, proprio per questo, finalmente umanizzati.
Guardarlo significa accettare di stare, almeno per nove minuti, dalla parte di chi non plasma, ma viene plasmato.