Orfeo, Virgilio Villoresi racconta il film tra Dino Buzzati, cinema delle origini e sogno

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

©Getty

Orfeo, presentato Fuori Concorso a Venezia 82 e scelto come  Film della Critica SNCCI, arriva oggi al cinema. Il regista Virgilio Villoresi racconta l’adattamento libero del Poema a fumetti di Dino Buzzati, la scelta dell’animazione artigianale, il lavoro in pellicola, il cast, la musica e l’anima più intima del film. Un’intervista che svela il laboratorio segreto di Orfeo

Ci sono registi che costruiscono film.
E registi che costruiscono sogni abitabili.
Con Orfeo, Virgilio Villoresi scende nell’aldilà immaginato da Dino Buzzati con la delicatezza di un artigiano e l’audacia di un illusionista, trasformando la materia in visione, la memoria in luce, l’amore in un varco da attraversare a occhi aperti.

È un film fatto di vetri inclinati, pellicola che respira, stop-motion che pulsa come un cuore segreto. Un cinema che non si consuma sullo schermo di un telefono, ma chiede il buio della sala, il silenzio condiviso, la resa totale dello sguardo.
Perché Orfeo non va semplicemente visto: va vissuto al cinema, dove le immagini diventano presenza e il sogno trova finalmente un corpo.

Oggi, nel giorno dell’uscita in sala, incontriamo Villoresi per entrare nella bottega segreta del suo cinema: tra Buzzati, teatro d’ombre, oggetti del pre-cinema, ricordi d’infanzia e un’idea di meraviglia che oggi è anche un atto di resistenza. Un invito, per tutti, a tornare davanti allo schermo grande con lo stesso stupore di quando il cinema era ancora una promessa.

Intervista a Virgilio Villoresi – Regista di Orfeo

Dal Buzzati “fedele” alla metamorfosi cinematografica, tra artigianato, memoria e sogno

Quando hai capito che Poema a fumetti non sarebbe diventato un adattamento “fedele”, ma una vera metamorfosi cinematografica?

All’inizio l’idea era quella di costruire in modo molto fedele, quasi ossessivo, i disegni delle tavole di Buzzati. Poi però mi sono reso conto che il film poteva acquistare maggiore forza se aggiungevo un aspetto più materico alle scene, rendendole un po’ più realistiche, pur mantenendo sempre un filo surreale e onirico.

Da lì è nata anche l’esigenza di modificare una parte della storia: insieme allo sceneggiatore Alberto Fornari e poi con la collaborazione di Marco Missiroli, abbiamo deciso di raccontare l’incontro tra Orfeo ed Eura, che nel poema originale è del tutto assente. Ci serviva per dare più spessore ai personaggi e per motivare poi la scelta di Orfeo di non varcare la soglia.

La piazza in cui loro camminano, per esempio, è una riproduzione fedele di un quadro di Buzzati. E nella prima parte del film, oltre ai riferimenti estetici buzzatiani, c’è anche tutta la mia passione per il cinema classico: penso a Le notti bianche, ma anche a un film straordinario come Ritratto di Jennie. Volevo ritrovare soprattutto quell’atmosfera fatta di sguardi sospesi, di tempo che sembra fermarsi, e ricostruire un po’ quel tipo di linguaggio. Sono cresciuto con quei film e ci tenevo che anche il mio esordio avesse quel sapore.

Oggi quasi tutto è digitale. Tu hai fatto l’opposto: è solo una scelta poetica o anche una forma di resistenza?

Da bambino mi piaceva “pasticciare” con le cose: costruire piccoli teatrini, usare gelatine, creare effetti manuali. Dentro di me ho sempre avuto una naturale inclinazione per la meraviglia artigianale. È quello che so fare, ma soprattutto è quello che mi piace fare.

Mi piace sorprendere me stesso come primo spettatore durante le riprese. Il set, la costruzione dell’effetto artigianale, hanno anche un aspetto ludico, fanciullesco. Con il digitale tutto è più razionale, programmato, mentre con le mani basta spostare un oggetto o una luce per creare qualcosa di seducente e magico. È così che mi piace fare cinema.

C’è stato un momento in cui hai davvero temuto di non riuscire a realizzare una scena come l’avevi immaginata?

Ho temuto anche di non finire il film più di una volta. Il contributo del Ministero è stato fondamentale, ma una parte significativa è stata autoprodotta, con i risparmi anche della mia società, Fantasmagoria. Girare per due anni e mezzo non è stato semplice: ogni volta bisognava ottimizzare le spese.

E poi c’è stata la sperimentazione dell’effetto Shüfftan nel finale, quello del fantasma di Eura: non lo avevo mai utilizzato a una scala così grande. Per una sola inquadratura ci abbiamo messo mezza giornata. Bastava spostare il vetro di un grado o sbagliare l’angolazione della luce e tutto saltava. Però tutta la troupe, dal direttore della fotografia Marco De Pasquale agli scenografi Riccardo Carelli e Federica Locatelli, era animata da un desiderio collettivo di fare qualcosa di importante. Questa energia ci ha portato fino in fondo.

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Come hai scelto il cast: avevi già in mente Luca Vergoni, Giulia Maenza e Vinicio Marchioni?

Non ho fatto moltissimi provini. All’inizio c’era anche la figura di Filippo Scotti, poi ho scelto Luca Vergoni per una questione di somiglianza con l’Orfeo di Buzzati e perché aveva fatto un ottimo provino.

Giulia Maenza la conoscevo già: anche lì ho fatto qualche provino, ma mi ha convinto subito.
Poi c’è stata la bellissima possibilità di coinvolgere Vinicio Marchioni, ed è stata una grande esperienza con lui sul set.
E infine Aomi Muyock, che è una mia amica, e che si è prestata a interpretare questo personaggio un po’ bizzarro che è Trudy.

Nel film c’è una sequenza molto intima: il Super8 di tua madre che danza. Come è nata?

Dovevo girare una scena in un teatro, ma per motivi di budget non riuscivo a costruire quell’impianto scenografico. Così ho iniziato a rivedere i vecchi filmati in Super8 di mia madre, che è una ballerina, e mi sono imbattuto in questo materiale meraviglioso del Lago dei Cigni.

Mi è venuta l’idea di unire, attraverso il montaggio, la sua passione per la danza con il mio desiderio di cinema. Abbiamo ricostruito la scenografia esattamente identica a quella del Super8, ridisegnando il fondale e rifacendo la coreografia con una compagnia di danza.

La cosa più emozionante è che quel giorno mia madre era sul set e ha diretto personalmente Giulia Maenza nei movimenti. È stato incredibile: come se due tempi della vita si fossero sovrapposti.

Il film sembra una grande “Wunderkammer”. Sei un collezionista?

Sì, in casa ho una vera e propria Wunderkammer. Colleziono soprattutto oggetti vintage dei primi del Novecento, strumenti del pre-cinema, materiali vittoriani. Sono passioni che poi entrano naturalmente nel film.

Nel film si vede un chromatrop, uno strumento vittoriano per bambini, che ho filmato in macro e trasformato in una visione in movimento. Nella scena del ragno, invece, appare un praxinoscopio, con l’animazione riflessa sugli specchi. Ho deciso di inserirli perché, in fondo, la scenografia e tutti i props sono come un’estensione della mia idea di bellezza, delle mie ossessioni visive.

E dentro questa passione per gli oggetti vive anche la mia grande passione per i film di Jordan Belson, per quel cinema visionario, cosmico, ipnotico, capace di trasformare la luce in puro viaggio interiore. È un riferimento sotterraneo, ma fondamentale, che dialoga in profondità con l’anima più onirica di Orfeo.

La musica di Angelo Trabace nel film sembra un personaggio a tutti gli effetti.

Con Angelo Trabace c’è stata una vera simbiosi. Spesso mi componeva i brani prima che io girassi le scene, così potevo costruire regia e montaggio direttamente sulle sue note.

Io gli chiedevo delle bozze musicali e da lì riscrivevo anche lo storyboard, aggiungevo scene. In parte è come se fosse stato un co-regista sul piano sonoro.

Cosa ti auguri che lo spettatore porti fuori dalla sala, una volta che le luci si riaccendono?

Ho sempre pensato Orfeo come un viaggio sensoriale e iniziatico verso il sogno.
Mi piacerebbe che lo spettatore riscoprisse quell’idea di cinema come abbandono alla visione, dimenticandosi di essere in sala e lasciandosi trasportare completamente dal flusso delle immagini, un po’ come accadeva nel cinema surrealista.

Vorrei riportare quell’emozione forte dentro le sale.

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Il passato come atto rivoluzionario

In un tempo in cui il cinema sembra spesso inseguire gli algoritmi, le mode e le geometrie fredde del consumo, il talentuoso Virgilio Villoresi sceglie la strada più scandalosa e più necessaria: quella del passato come forza rivoluzionaria. Un cinema intrepido che non teme di tornare alle origini per farsi di nuovo visione, rischio, corpo. Villoresi è un autentico alfiere della forza primigenia del cinema, quella che nasce dalla mano, dalla materia, dall’errore fertile dell’artigianato. Un gesto controcorrente che oggi suona sovversivo, e che di Orfeo fa non solo un film, ma un atto di fede nel potere ancestrale delle immagini.

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