Udo Kier è morto, addio all’icona del cinema di culto tra Warhol, Fassbinder e Von Trier

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

©Getty

È morto a 81 anni Udo Kier, volto irripetibile del cinema di culto europeo e americano. Da Frankenstein e Dracula prodotti da Andy Warhol ai film di Fassbinder, dalla collaborazione con Gus Van Sant ai ruoli pop in Blade e Ace Ventura, fino al sodalizio artistico con Lars von Trier. Una carriera di oltre 200 film e un’aura magnetica che ha attraversato decenni e generi senza mai perdere la sua unicità

Ci sono attori che non muoiono davvero. Lasciamo andare il corpo, ma non la luce.
Udo Kier era questo: un bagliore perenne, un lampo di inquietudine, un sorriso obliquo che attraversava i decenni come un’eclissi desiderata. È morto a 81 anni, annunciato dal compagno Delbert McBride, ma sembra impossibile pensarlo altrove rispetto alle sue maschere, ai suoi fantasmi, ai suoi sussurri cinematografici.

Kier non recitava: appariva.
Come un presagio, come una promessa, come un peccato.

Era l’attore che non cercava la bellezza: la divorava.

Il volto che Warhol volle come ferita

Più di 200 film alle spalle, ma due titoli bastano per scolpirlo nella memoria del mondo:
Flesh for Frankenstein (Il mostro è in tavola... barone Frankenstein) e Blood for Dracula
(Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!! )Due opere deformi, sfacciate, folli, in cui Andy Warhol e Paul Morrissey lo trasformarono in un vampiro melanconico, un barone scisso tra eros e morte. Kier offrì ai suoi mostri un volto fragile e feroce, sgraziato e sublime, un paradosso vivente capace di trasformare la mostruosità in poesia.

Era l’arte di essere “altro” in un mondo che voleva il “normale”.

La stagione dei sensi: Kier prima di Kier

Per capire davvero la natura cangiante e irresistibile di Udo Kier, bisogna tornare più indietro. Prima dei vampiri, prima dei deliri warholiani e delle ossessioni fassbinderiane, c’è un film che molti definiscono involuto, farraginoso, velleitario.

E  ci si perde con gioia, come accade per i Guilty Pleasure

È La stagione dei sensi (1969) di Massimo Franciosa: un film storto, febbrile, forse invecchiato male, ma attraversato da un magnetismo che resiste ancora oggi.
Merito del giovane Udo Kier, del contributo alla sceneggiatura di Dario Argento, e della colonna sonora di Ennio Morricone, un colpo al cuore continuo.
(Lo ammetto: Una voce allo specchio, con la voce ultraterrena di Edda Dell’Orso, è una ferita sonora da cui non guarisco mai.)

Eva Aulin, con quell’aura da divinità nordica, completa il quadro di un cinema che oscillava tra eros, gotico e melodramma.

La trama è un incubo balneare: quattro ragazze e due ragazzi finiscono su un’isola dopo essere rimasti senza benzina. Un castello, un delitto nascosto, un Kier-Luca cupo, solitario, irrequieto. Le ragazze si innamorano, si contendono il suo gelo, il suo carisma, la sua crudeltà.
Lui le seduce, le domina, poi le abbandona come farfalle imprigionate in un castello vuoto.

Il finale è spietato, doloroso, inevitabile.
Forse è proprio per questo che il film mi piace: perché non cerca di piacere.

Ed è bello ricordare che proprio da quel sodalizio con Argento nascerà più tardi il ruolo del dottor Frank Mandel in Suspiria e poi quello di Padre Johannes nelle mitologie esoteriche del maestro italiano.
Un destino che brilla di fili sotterranei.

Fassbinder: l’incontro che brucia per sempre

Fassbinder lo vide in un bar e decise che era destinato al cinema.
Non al suo cinema: al cinema.

E così accadde: La moglie del capostazione, La terza generazione, Lili Marleen.
Con Fassbinder, Kier trovò la sua lingua definitiva: uno sguardo che non chiede, un corpo che non chiede perdono.
In Germania era un talismano. In Europa, un enigma. Nel mondo, un attore di culto.

L’eccesso era la sua sobrietà.

L’America, Gus Van Sant, la SAG e una nuova pelle

Fu la Berlinale a regalargli un nuovo destino.
Gus Van Sant gli spalancò la porta degli Stati Uniti, procurandogli documenti, lavoro, futuro.
La sua resurrezione americana passò per Belli e dannati, dove il volto di Kier si incastrava tra River Phoenix e Keanu Reeves come un’ombra affettuosa.

Poi arrivò il Kier pop, quello inatteso:
Ace Ventura, Blade, Armageddon.
Un attore capace di attraversare il mainstream come un viandante notturno che  senza mai appartenere del tutto. a quella tipologia di cinema

La verità è che lui apparteneva solo al culto.

L’abbraccio feroce e tenero di Lars von Trier

E poi, il destino: Von Trier.
Da Epidemic a Europa, da Dogville a Melancholia, la loro collaborazione è una ferita luminosa nella storia del cinema. Un patto creativo che non concedeva tregua: Von Trier usava Kier come si usa un fiammifero — non per illuminare, ma per vedere cosa accade quando brucia.

E brucia anche in una delle sue creazioni più sulfuree e imprevedibili, la miniserie The Kingdom (Riget), dove Udo Kier interpreta uno dei personaggi più inquietanti e indimenticabili di tutta la televisione europea: Åge Krüger, un medico del passato trasformato in demonio (o incarnazione di Satana stesso) dopo aver assassinato la propria figlia illegittima, Mary Jensen, con il cloroformio.
Un delitto sepolto tra i mattoni del Rigshospitalet, nascosto per decenni, che condanna la bambina a vagare come spirito sofferente tra gli ascensori e i corridoi dell’ospedale.

Krüger, riportato nel mondo dei vivi da una setta satanica che tenta di evocare Satana, torna come un’entità oscura che mira a creare l’Anticristo: Frederik, un neonato mostruoso e sofferente destinato, nelle sue intenzioni, a diventare il corpo da possedere per rinascere.
Ma il piano fallisce tragicamente: Frederik, il più innocente dei dannati, si toglie la vita con l’aiuto della madre Camilla, pur di sottrarsi all’abisso.

La presenza di Kier come Krüger è un capolavoro di crudeltà glaciale: un fantasma muscolare, elegante e terribile.
Quando la sua identità demoniaca viene rivelata, dalla fronte spuntano corna nere, lunghe e sanguinanti: un’immagine che resta incisa nella storia dell’horror televisivo.
Krüger infesta l’ospedale come un trauma irrisolto, come un peccato originario: appare, scompare, seduce, minaccia, parla come un dio stanco del mondo.
Un personaggio così complesso che sembra scritto da Lovecraft e diretto da Murnau… ma ha il volto di Kier, e questo basta per renderlo indimenticabile.

Sarà poi la medium Sigrid Drusse, insieme al figlio Bulder e al dottor Krogshøj, a liberare finalmente lo spirito di Mary, testimoniano "per Dio e per l’umanità" il crimine nascosto di Krüger.
E quando il male torna una seconda volta, il suo volto — ironia del destino — assomiglia a quello di Lars von Trier stesso.
Perché nel mondo di The Kingdom, l’arte e l’inferno sono sempre la stessa stanza.

Madonna, la carne, il desiderio, il culto

Tra un film e l’altro, Kier attraversò anche il regno di Madonna.
Comparve nel libro Sex, in Erotica e Deeper and Deeper.
Era come se il pop, per un attimo, si fosse ricordato che la trasgressione non è un’esibizione ma un mistero.

Udo portava con sé una nudità spirituale che diventava estetica.

Il ritorno, la gloria tardiva, la quiete del deserto californiano

Negli ultimi anni, mentre molti coetanei diventavano reperti, Kier era tornato una fiamma.
Il successi di The Secret Agent di Kleber Mendonça Filho — premiato a Cannes — lo aveva riportato sotto i riflettori che amava e detestava allo stesso tempo.

Viveva fra Los Angeles e Palm Springs, in un’ex biblioteca modernista che somigliava a lui:
silenziosa, geometrica, sensuale nella sua ombra.
Collezionava arte, architettura, storie.
Era diventato un fantasma luminoso del cinema mondiale.

E ovunque andasse, veniva accolto con il rispetto che si deve ai miti che non hanno mai ceduto al compromesso.

Nato dal fuoco, tornato al fuoco

Udo Kierspe era nato in un ospedale bombardato di Colonia.
La guerra lo aveva salutato prima ancora che lui aprisse gli occhi.
Forse per questo la sua recitazione sembrava sempre postuma, come se fosse tornato da un altrove per raccontare da che parte sta il desiderio.

Non ha mai inseguito Hollywood.
Le è passato accanto come un angelo inquieto, lasciando solo quello che voleva lasciare:
tracce, schegge, ombre, tatuaggi sulla pellicola

 attori di culto — quelli veri — non si consumano.
Restano come lampade accese in una stanza che non riusciamo a dimenticare.

Udo Kier è uno di loro.
Un attore che ha attraversato decenni senza appartenere a nessuno, un volto che ha insegnato al cinema che la stranezza è una forma di grazia, che l’eccesso può diventare eleganza, che il macabro può essere poesia.

E ora che se n’è andato, il culto non fa che aumentare.
Perché ci sono interpreti che non recitano un ruolo:
sono il ruolo.

E Udo Kier, fino all’ultimo fotogramma, è stato questo.

Un enigma irrisolto.
Un sogno gotico.

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