Venezia 82, i vincitori tra silenzi e vulcani: dai misteri di Jarmusch al grido di Gaza

La Mostra del Cinema di Venezia si chiude sempre con un tramonto sul Lido, quando il vento salmastro trascina via i fiori caduti dai red carpet, le locandine stropicciate dai fotografi e le note delle colonne sonore che hanno accompagnato le proiezioni. Le gondole, immobili come reliquie d’acqua, sembrano custodire segreti antichi, mentre i palazzi del Lungomare Marconi si tingono d’oro e di rosa come in un affresco di Turner. È il momento in cui i film smettono di essere proiezioni e diventano memoria, si depositano nelle pupille come sogni che non si cancellano. Quest’anno quel tramonto non è stato pacificato, ma iridescente: punteggiato di nuvole di dolore e lampi di grazia, sospeso tra il respiro dei vulcani e il silenzio degli alberi. Venezia 82 ha consegnato al mondo un palmarès che non consola, ma scolpisce: un mosaico di ferite e di visioni, un canto dolente che ci ricorda che il cinema non serve a chiudere gli occhi, ma a tenerli aperti anche quando bruciano. Jarmusch, il brindisi impossibile Jim Jarmusch ha portato in concorso Father Mother Sister Brother, opera divisa in tre episodi come tre atti di una liturgia domestica. New Jersey, Dublino, Parigi: tre città che diventano specchi deformanti della famiglia, teatro dell’assurdo in cui il tempo si inceppa. Adam Driver, Charlotte Rampling, Cate Blanchett, Vicky Krieps, Indya Moore e Luka Sabbat incarnano padri e madri, fratelli e sorelle sospesi in un eterno presente, tra orologi tarocchi che non battono mai l’ora giusta e skater al rallentatore come angeli custodi fuori sincrono. Jarmusch torna a interrogare il mistero del quotidiano, come aveva fatto in Coffee and Cigarettes o in Paterson, ma qui lo fa scavando nella genealogia, nella memoria che non guarisce. È un film che sembra un Gin Tonic lasciato sotto la pioggia: trasparente, fragile, con un retrogusto che brucia. Un brindisi impossibile, ma necessario. Ben Hania, la voce che non si spegne Kaouther Ben Hania ha inciso il suo nome nella storia del festival con The Voice of Hind Rajab. Una bambina intrappolata a Gaza, la sua voce che implora al telefono: otto minuti che diventano otto ore, un’ambulanza che non arriverà mai. Non c’è pornografia del dolore, solo pudore e necessità. La regista tunisina ha trasformato quella registrazione in un atto civile, un grido che travalica il cinema e diventa memoria universale. In sala stampa ha ricordato: "Le notizie si dimenticano, il cinema può costruire momenti di empatia". E infatti il suo film è questo: empatia radicale. Non si guarda da fuori, ma da dentro: siamo noi a sentire quella voce che dice “non mi piace niente”, un capriccio infantile trasformato in testamento. The Voice of Hind Rajab non consola, ma impedisce di dimenticare. È cinema come monito, cinema come resistenza. Safdie, la macchina che si rompe Con The Smashing Machine, Benny Safdie ha sorpreso pubblico e critica. Dwayne Johnson non è più The Rock, ma Mark Kerr, campione UFC trasformato in un uomo spezzato da dolore e dipendenza. Al suo fianco, Emily Blunt brucia di un amore feroce, complice e distruttivo. Safdie filma i combattimenti come tragedie greche: l’ottagono è un teatro dove si consuma il sacrificio. Ma i veri pugni non sono quelli che spaccano nasi, bensì quelli che frantumano l’anima. Johnson crolla negli spogliatoi, la maschera del campione si sgretola, e resta la fragilità di un uomo che tenta di ricucire la propria vita come una ciotola giapponese riparata alla meglio con l’Attack. Il film è un Old Fashioned incrinato: bourbon scuro, qualche goccia di bitter, un cubetto di ghiaccio che si scioglie lentamente, come la gloria di un campione che evapora. Safdie ha firmato un poema visivo sulla fragilità maschile, e Johnson ha trovato il suo vero ruolo drammatico. Sorrentino e la Coppa Volpi a Servillo, il dubbio come grazia Paolo Sorrentino ha aperto il concorso con La Grazia, e ha riportato Toni Servillo al Quirinale immaginario. La sua interpretazione, premiata con la Coppa Volpi per il miglior attore, restituisce un Presidente divorato dal dubbio, innamorato della moglie defunta, geloso del suo presunto tradimento, chiamato a decidere su grazia, eutanasia, destini che pesano come macigni. Il film è anche l’ennesimo capitolo della virtuosa collaborazione tra Sorrentino e Servillo, una delle più solide e feconde del cinema italiano contemporaneo: da Le conseguenze dell’amore a Il Divo , da La grande bellezza a Youth – La giovinezza , fino a Loro , È stata la mano di Dio e ora La Grazia . Sorrentino ha trasformato la politica in tragedia privata: il Quirinale non come palazzo sacro, ma come luogo di solitudine. Una pizza d’asporto mangiata direttamente dal cartone, imperfetta e necessaria. Un film che ci ricorda che il dubbio è la forma più alta di grazia. Donzelli, la precarietà come resistenza Valérie Donzelli ha portato At Work, storia di un fotografo che lascia il successo per inseguire il sogno impossibile di diventare scrittore. Paul rinuncia ai guadagni e diventa jobber, lavoratore precario, per ritagliarsi il tempo di scrivere. È un ritratto spietato della Francia uberizzata, ma anche un poema sulla dignità della vulnerabilità. La sua precarietà è resistenza: la libertà non è un privilegio, ma un costo altissimo. Donzelli trasforma la fragilità in gesto politico, mostrando che i sogni bruciano più dei gioielli. Rosi, sotto le nuvole del Vesuvio Gianfranco Rosi ha scelto Napoli come epicentro di Sotto le nuvole, girato in bianco e nero come atto poetico. Tre anni di riprese, statue dimenticate, archeologi giapponesi, vigili del fuoco, marinai siriani. Napoli emerge come città sospesa tra mito e cronaca, rovina e rinascita. Un Vesuvio Sour con Taurasi: acidità di limone, cenere e fuoco, un lampo di peperoncino che esplode come eruzione. Napoli è macchina del tempo, capitale dell’ambiguità, e Rosi ce la restituisce come teatro fragile e indistruttibile. Cai Shangjun, il sole che brucia Dalla Cina è arrivato The Sun Rises on Us All di Cai Shangjun, dramma morale che intreccia colpa, sacrificio e impossibilità del perdono. Xin Zhilei, premiata con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile, offre un ritratto memorabile: una donna che lotta con le ombre del passato e con la responsabilità di una colpa non solo personale ma collettiva. Accanto a lei, Zhang Songwen incarna la controparte maschile, segnata da uguale disperazione. Cai ha scolpito un film intimo e implacabile, specchio della Cina post-pandemica ma anche dell’intera umanità. La sua regia non concede scorciatoie: i silenzi pesano più delle parole, le stanze sono prigioni emotive, i corpi diventano archivi di dolore. Quel sole che “sorge per tutti” non illumina, ma ferisce. È un abbraccio che non salva, ma resiste. Un cinema che lascia cicatrici invece di speranze, e che trova nella performance di Xin Zhilei la sua punta di diamante, fragile e incandescente allo stesso tempo. Enyedi e Luna Wedler, il silenzio del ginkgo Con Silent Friend, Ildikó Enyedi ha intrecciato un secolo di vite intorno a un ginkgo secolare che cresce in un orto botanico di Marburg. Tre epoche — 1908, 1972, 2020 — scandiscono i tentativi di connettersi con la natura e con se stessi: Grete , prima studentessa donna in un’università maschile; Hannes , giovane degli anni Settanta, fragile e febbrile; Tony Leung, neuroscienziato in cerca di nuove percezioni; Léa Seydoux, scienziata che studia la comunicazione delle piante. Proprio Luna Wedler è stata premiata con il Marcello Mastroianni come miglior esordiente, per un’interpretazione che mescola fragilità e forza, umiltà e ribellione: il suo sguardo ostinato è quello di una pioniera che affronta un mondo ostile, diventando specchio delle lotte di ieri e di oggi. La sua presenza illumina il film come un filo di luce che si intreccia alle radici del ginkgo. Il film è una meditazione sulla percezione e sul tempo: ogni epoca ha il suo ritmo, dalla fotografia in bianco e nero di Grete alle pellicole colorate e imperfette di Hannes, fino alla precisione digitale del presente. Il ginkgo diventa il vero protagonista, con la sua femminile solitudine che rispecchia quella dei personaggi. Silent Friend è un inno al limite dei nostri sensi, al desiderio di connessione con ciò che resta invisibile, un cinema che invita a rallentare e ad ascoltare la voce silenziosa del mondo vegetale. Un palmarès come danza di ombre e luce Il palmarès di Venezia 82 è un ballo mascherato tra volti e visioni. Jim Jarmusch ci ha consegnato un brindisi impossibile, Kaouther Ben Hania un grido che non si spegne, Benny Safdie il corpo frantumato di un campione. Paolo Sorrentino e Toni Servillo, sodali da una vita, hanno trasformato il dubbio in elegia, mentre Valérie Donzelli e Gilles Marchand hanno scolpito la precarietà in parola scritta. Gianfranco Rosi ha insegnato a guardare Napoli sotto le nuvole, Cai Shangjun ha inciso un sole che ferisce, Ildikó Enyedi ci ha invitati ad ascoltare il silenzio del ginkgo. E accanto ai registi, gli attori: la voce grave e ironica di Servillo, la fiamma dolente di Xin Zhilei, la luce fragile e ribelle di Luna Wedler, premiata come promessa e già leggenda. Insieme formano una costellazione che non chiude, ma apre: una mappa di ferite luminose che ci accompagna oltre il festival, verso un cinema che non consola ma incanta, che non salva ma resiste, come un brindisi al tempo e alle sue ombre.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Venezia 82, i vincitori tra silenzi e vulcani: dai misteri di Jarmusch al grido di Gaza

Paolo Nizza