Le Canzoni dei Cure nei film: da L’étranger di Ozon a The Crow, Just Like Heaven e Ant-Man

Alla Mostra del Cinema di Venezia 82 François Ozon ha scelto di far risuonare Killing an Arab nei titoli di coda di L’étranger. Non una scelta estetica, ma un gesto politico e poetico: restituire al primo singolo dei Cure il suo senso originario, quello che Robert Smith aveva scritto da ragazzo dopo aver letto Camus. La canzone, spesso fraintesa e censurata, torna a essere quello che era: un poema breve sull’assurdo, sull’indifferenza, sulla vertigine di un sole che acceca. Ed è proprio da questo episodio che nasce il filo rosso che lega la band inglese al cinema. I Cure non sono mai stati usati come semplice colonna sonora ornamentale: ogni volta che una loro canzone appare in un film, diventa detonatore emotivo, marchio generazionale, ferita che non si rimargina. The Crow : un requiem gotico Il matrimonio più celebre tra i Cure e il cinema è The Crow. Alex Proyas chiese loro un brano originale, e nacque Burn. Brandon Lee, con il volto truccato e il destino segnato, danza tra le fiamme e le ombre, mentre le note dei Cure trasformano la vendetta in un requiem gotico. È l’istante in cui la musica diventa carne, tragedia, leggenda. E la colonna sonora del film resta una delle più iconiche degli anni ’90, scolpita nella memoria come un tatuaggio sonoro. Just Like Heaven : la leggerezza dell’amore Dal nero al rosa. In Just Like Heaven, commedia romantica con Reese Witherspoon e Mark Ruffalo, la band entra addirittura nel titolo. E nei titoli di coda, dopo la versione sussurrata di Katie Melua, arriva l’originale: Just Like Heaven. È un brano che cammina in bilico tra malinconia e gioia, e che qui diventa carezza, promessa, dichiarazione. Dimostra come i Cure possano abitare non solo il goth, ma anche la commedia sentimentale, con la stessa profondità. Ant-Man : Marvel in versione dark E poi la sorpresa: in Ant-Man, cinecomic Marvel, durante il surreale duello dentro una valigetta, risuona Plainsong. Un’apertura maestosa, quella di Disintegration, che Ozon definirebbe “quasi metafisica”. E invece eccola a dialogare con un film di supereroi, a dimostrare che la malinconia post-punk può entrare anche nel cuore dell’entertainment globale, senza perdere niente della sua purezza. Boys Don’t Cry: adolescenza eterna Boys Don’t Cry è forse il brano più citato. In The Wedding Singer sigilla la nostalgia anni ’80. In Nick and Norah’s Infinite Playlist diventa confessione indie, fragile e ironica. In Friends with Benefits compare nella cover dolente di Grant-Lee Phillips. E in Career Girls di Mike Leigh non è un cameo, ma un’ossessione: sei brani dei Cure punteggiano la vita dei protagonisti, come se la musica fosse diario intimo, rifugio, specchio. Lovesong : Hawaii e malinconia In 50 First Dates con Adam Sandler e Drew Barrymore, Lovesong viene reinterpretata dai 311 in versione tropicale. Si tratta di una cover, ma la poesia resta intatta: è sempre la stessa dichiarazione d’amore assoluto, solo che qui ha il sapore dell’oceano e dei fiori di ibisco. È la prova che i Cure, anche trasfigurati, non perdono mai la loro anima. Dal punk al cinema: un linguaggio universale Il cinema ha bisogno dei Cure quando deve evocare ciò che non si può spiegare: il dolore che non passa, l’amore che resta, il tempo che scivola. Non sono canzoni decorative: sono ferite aperte che dialogano con le immagini. Un’ombra che attraversa la luce, una lacrima che accompagna un sorriso. A Venezia, con Ozon, Killing an Arab è tornata a chiudere il cerchio: Camus, Robert Smith, il cinema. Una triade che ci ricorda che la malinconia può diventare linguaggio universale, e che ogni spettatore porta via con sé un frammento di quella musica come fosse un ricordo personale. Se i Cure fossero un cocktail Sarebbero un Black Velvet, metà stout scura e metà champagne. Un bicchiere che unisce la notte e la festa, la malinconia e l’ebbrezza. Li berresti dopo un funerale e a un matrimonio, su un tetto di Londra o su una spiaggia di Algeri, e avresti la stessa sensazione: un sorso che brucia e consola, che resta in bocca come un’eco. È questo che fanno i Cure al cinema: trasformano la musica in un cocktail di luce e ombra, in un brindisi amaro e dolce alla vita.

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Paolo Nizza