“Sonaggios”: per chi suona il campanaccio. La recensione del film

Cinema

di Mauro Bevacqua

Dalla Sardegna alla California: l’ultimo lavoro di Pietro Mereu, presentato in anteprima al San Francisco International Film Festival, racconta il fascino dei “mondi che stanno sparendo”. Come quello di chi da secoli produce artigianalmente i campanacci, una tradizione portata avanti oggi soltanto da due famiglie. Ma che guarda al futuro con speranza

“Sonaggios” vuol dire campanaccio. Ma solo in tonarese, il dialetto che si parla a Tonara, dove Pietro Mereu ambienta il suo ultimo documentario, che proprio così ha intitolato. “In Barbagia infatti si dice sonazzos, ma anche pitiolos”, ci racconta lui da San Francisco, dove il suo ultimo lavoro è stato presentato in anteprima alla 68^ edizione del San Francisco International Film Festival. Perché Mereu, ammette lui stesso, ha “un’affezione per questi mondi che stanno sparendo” e anche nella sua Sardegna – dove si contano più pecore (3.5 milioni) che abitanti (1.5) – il mestiere di chi fabbrica campanacci per gli animali è sempre meno praticato. “Al punto che una volta le famiglie erano una ventina, poi sono rimaste 10/12 e oggi solo due”. I Floris e i Sulis, inizialmente rivali e poi forse – complice anche il lavoro di Mereu – sempre meno distanti tra loro, fino a discutere con il sindaco di Tonara la possibilità di unire i due laboratori e le due tradizioni familiari secolari con un unico scopo: far sì che tutto il patrimonio di questo artigianato locale non finisca per sparire del tutto. Per Mereu è quasi un’ossessione: “Soprattutto oggi, quando vedo una sorta di divinizzazione della tecnologia, a partire dall’intelligenza artificiale. Ma più cose facciamo fare alle macchine, più perdiamo la capacità di farne noi. La mia vuole essere una riflessione universale legata all’artigianato, uno dei patrimoni culturali più forti del nostro Paese”. E qui tornano i campanacci, già scelti dalla Sardegna all’Expo del 2015 come segno identitario e oggi, grazie al lavoro del professor Mocchi, candidati a diventare patrimonio culturale immateriale salvaguardato dall’Unesco. “Il loro suono è fondamentale, è parte integrante del patrimonio di ricordi di ogni sardo, me compreso. La cosa difficile non è forgiare i campanacci, ma dar loro il suono. E per questo nel mio documentario all’inizio cito come una sorta di figura archetipica, quasi omerica, quella di un membro della famiglia Sulis, Giovanni Zedda, che in vecchiaia perde la vista ma nella sua cecità mantiene la capacità di accordare i campanacci, dando loro una voce, e tramandando questo sapere alle nuove generazioni”.

 

 Un documentario che sorprende e affascina 

Sonaggios è un documentario che sorprende e affascina prima di tutto dal punto di vista cinematografico (Mereu ha voluto come direttore della fotografia Samir Ljuma, già premiato in passato per il suo lavoro in “Honeyland”). Inizia con alcune immagini riprese dall’alto, bellissime, di una transumanza (“Scelta non casuale, perché è un altro aspetto della pastorizia che sta scomparendo”, dice Mereu), descrive in maniera poetica il fascino di altre tradizioni della cultura sarda, come quella dei Mamuthones (“le loro maschere vanno a braccetto col mondo dei campanacci”) e tocca forse il suo punto più alto nella scena che alterna le danze di questa cerimonia al lavoro degli artigiani in bottega, in un rimando quasi tribale a movimenti e suoni che accomunano le due realtà. Ma non c’è solo questo: ci sono immagini di archivio, concesse dalla cineteca sarda, sul rituale della tosatura (“Una volta un rito collettivo, di solidarietà reciproca tra i pastori; oggi svolto da manodopera prezzolata, che si fa pagare. In ‘Sonaggios’ si vedono lavoratori rumeni, ma i primi sono stati i neozelandesi”) e c’è quella che Mereu chiama “la funzione sociale del documentario”. Con una metodologia e uno scopo ben precisi. La prima: “Non ci può essere frenesia nel girare: va costruito un rapporto con i soggetti, altrimenti non ne esce niente”. Il secondo: “Per me il documentario deve mettere in luce realtà sconosciute”. Per farle scoprire e, magari, aiutare a preservarle.  

 

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