
Presentato in concorso all'ultimo Sundance Film Festival e attualmente nelle sale italiane, l'opera è incentrata su Maurizio Bini, un medico ginecologo che all'ospedale Niguarda di Milano, ogni giorno incontra i pazienti dei due nuclei di cui è responsabile, il centro per la disforia di genere e la struttura Diagnosi e terapia della sterilità e crioconservazione
È successa una strana cosa, all’ultimo Sundance Film Festival, andato in scena a fine gennaio. Sul palco dell’Egyptian Theatre di Park City, nello Utah – la sala che negli anni ha applaudito Quentin Tarantino e i fratelli Coen, Richard Linklater e Ryan Coogler - è salito un dottore che da quasi 40 anni esercita la sua professione in un ospedale pubblico di Milano, il Niguarda. E lo ha fatto da protagonista, perché così si addice al personaggio (tutt’altro che intimorito dai riflettori) e perché di fatto il dott. Maurizio Bini, insieme ai suoi pazienti, è il protagonista del lavoro firmato da Gianluca Matarrese, e presentato in concorso nella sezione World Documentaries. Si chiama “GEN_”, e quell’underscore è lì a ricordare tutte le declinazioni possibili di una radice che può diventare gen-ere, gen-oma, gen-itori, gen-erazione, gen_te, gen-etica e tante altre parole ancora. Perché il dott. Bini all’ospedale Niguarda è il responsabile di due dipartimenti, quello di Sterilità e Crioconservazione gametica e quello di Adeguamento di genere: “Sono – dice - un ginecologo specializzato in fecondazione assistita, a cui la Asl chiese di sostituire temporaneamente il collega che seguiva le transizioni di genere e che andava in pensione. La sostituzione è durata trentacinque anni". Dura invece poco più di un’ora e quaranta minuti l’affascinante viaggio nel suo mondo, un viaggio che prende il via dalle prime immagini che mischiano “spermatozoi e stelle con ovociti e luna, perché – fa notare Bini – la divinità si percepisce nell’infinito piccolo e nell’infinito grande. Io lavoro nell’infinito piccolo: e lì, di questa divinità, ne faccio esperienza ogni giorno”. A un certo punto, ripreso dalla macchina da presa di Matarrese, lo si sente esclamare: “Io non sono Dio”, ma quando lo incontriamo nell’ufficio al primo piano dell’ospedale che da quarant’anni chiama casa, non ha problemi ad affermare: “Io faccio esseri umani”. E in questa affermazione una sorta di potere creativo - se non divino - non può non risuonare. Lo spiega così. “Li faccio partendo da un embrione. E li faccio partendo da esseri adulti, perché il numero di transessuali che si tatua la data del giorno di inizio della terapia ormonale come nascita a una nuova vita, in un nuovo corpo, è molto elevato”, racconta. “Stiamo toccando una cosa pazzesca – riconosce – ma mi piace sempre dire che sappiamo cosa facciamo senza dimenticare cosa tocchiamo”. Un’espressione che ama sottolineare (“perché in questo campo è facile dimenticarselo”) e che è stata molto apprezzata anche dal pubblico americano, “abituato invece a una medicina contrattualistica: tu mi dici cosa vuoi, io ti dico quanto costa”.
Una prospettiva completamente diversa da quella che ha sempre ispirato e guidato il dott. Bini. Personaggio curioso, eclettico, che agli studi medici (laurea in medicina, specializzazione in ostetricia e ginecologia, un master in andrologia e un diploma in sessuologia) abbina un côté umanistico tutt’altro che usuale (una laurea in lettere e filosofia conseguita nel 2003 ma anche un diploma di lingua e letteratura cinese – lingua che parla fluentemente - ottenuto tre anni più tardi). Nella sua carriera, così come nella sua vita, c’è stato spazio per tante esperienze: “Sono stato per quasi dieci anni l’unico medico non obiettore di questo ospedale. L’unico. Su diciotto ginecologi che c’erano. Con tutto il tormento che questo comporta”. Un tormento che ancora oggi lo anima: “Non distinguo le persone in abortisti e anti-abortisti: credo sia una definizione esogena, che non condivido; le persone si dividono in anti-abortisti idealisti e in anti-abortisti realisti. Tutti devono essere anti-abortisti: un abortista è uno stupido. Per me un anti-abortista realista è una persona che avendo compreso tutto il disagio della situazione non dice ‘Passi da me questo calice’ ma cerca di ridurre al minimo il danno. Il danno c’è, va ridotto. C’è chi è disponibile a sacrificare anche due vite in nome di un’idea e chi cerca di eliminarne una sola salvandone, se può, un’altra”. L’esempio della ghianda è perfetto: “Una ghianda è già potenzialmente una quercia, ma quando mangi una ghianda non sei responsabile della deforestazione”, ama affermare: “Io penso che l’embrione sia un infinito bene. Però ho sposato una matematica, per cui so che gli infiniti non sono tutti uguali. Ci sono infiniti di ordine superiore. Io penso che l’embrione sia un infinito bene e una donna con un embrione dentro sia un infinito bene di ordine superiore”, conclude.

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Aborto, fecondazione assistita, disforia e transizione di genere. I temi trattati da “GEN_” (attualmente nelle sale italiane) sono delicati, il terreno è per definizione minato. Ma il dott. Bini ha il suo modo di guardare alle cose: “Ha questo dono speciale di vedere chi ha davanti”, afferma Donatella Della Ratta, etnografa con anni di esperienza sul campo in Siria, nonché ricercatrice accademica. È lei che ha dato l’idea del documentario a Matarrese e che, insieme a lui, lo ha scritto. “Ti guarda perché ti riconosce come essere umano, nella tua richiesta di aiuto. Non è una cosa da tutti, non solo tra i medici ma in qualsiasi altra professione. Non succede spesso”. “È il dottore che tutti vorremmo avere”, afferma Matarrese, talento italiano trapiantato a Parigi. “Lui si mette in ascolto dei desideri e dei progetti - in questo caso relativi ai corpi e all’identità - dei suoi pazienti e loro si mettono nelle sue mani, a loro agio in uno spazio che lui ha saputo creare. Si tratta di uno spazio privilegiato, solitamente inaccessibile a tutti, nel quale eccezionalmente ci ha concesso di entrare”. “Uno dei canoni principali dell’etnografia – ricorda Della Ratta - è proprio l’ascolto dell’altro. Questo approccio non invasivo ha giocato a nostro favore: l’osservazione è molto rispettosa, non interferisce mai con quello che succede”. Così, uno dopo l’altro, nello studio del dottore – e davanti alla silenziosa macchina da presa di Matarrese – sfilano bellissimi esemplari di quella che Bini definisce “varietà umana”. È un termine che utilizza frequentemente, soprattutto quando sostiene con forza che “il pericolo maggiore sta sempre nell’utilizzare una norma unica per la grande varietà umana”. Due termini – norma e varietà umana – che finiscono quasi naturalmente per entrare in conflitto: “Spesso la varietà umana non sta dentro nella normativa. Che fare? È una scelta individuale”, afferma. Lui sceglie di porsi “sul bordo”, nel rispetto della legge ma ai confini della legalità. “Io non voglio dire che uno debba violare le leggi, le leggi vanno rispettate; però solo l’adattamento della legge alla persona che ti sta davanti ti permette di aiutarlo. Facciamo i medici, non i legalisti”. Uno dei mille ordini esecutivi firmati da Donald Trump nei primi giorni della sua seconda presidenza gli presta un assist perfetto: “Quando uno dice: ‘Si può cominciare la terapia solo a 19 anni’ [negando i fondi federali a qualsiasi trattamento medico di riassegnazione di genere prima dell’età adulta del soggetto, nda] deve mettere in conto centinaia di suicidi: una singola parola determina la morte di qualcuno”. Sul dibattito che si è scatenato attorno alla triptorelina – il farmaco bloccante che porta alla sospensione dello sviluppo puberale, adottabile o meno negli adolescenti con disforia di genere – Bini ha le idee chiare: “Meglio non usarla, ma assolutamente necessario averla. Se all’adolescente confuso non si dà immediatamente l’idea che la sua necessità venga in qualche modo accolta, in attesa di una valutazione più approfondita, le conseguenze sono lì davanti a tutti: la causa di morte più alta nei transessuali non aiutati è ancora oggi, in qualsiasi fascia di età, il suicidio”. Se la gravità del tema è sotto gli occhi di tutti, Matarrese sottolinea la chiave “dell’ironia quasi istrionica” utilizzata dal dott. Bini nell’affrontarlo. E difatti: “Una volta, quando ho iniziato io, il transessualismo era un problema ortopedico prima ancora che piscologico: ai figli che volevano cambiar sesso il genitore spezzava le braccine; oggi invece i genitori gli dicono ‘Basta che tu sia felice’. L’argine genitoriale è crollato”, dice. È la differenza tra famiglia normativa e famiglia affettiva: “Una volta eravamo noi medici a incoraggiare i genitori ad accettare l’inevitabile; adesso incoraggiamo i genitori a frenare l’eccesso di precocità nelle decisioni. È cambiata completamente la modalità di lavoro dell’operatore medico”, dice Bini. Ma non è cambiato il fine ultimo: “Non siamo qua per fare quello che il paziente chiede, ma quello che come medici riteniamo sia giusto per quel paziente”.

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“Che lavoro faccio? Una volta ho risposto: ‘Presidio confini’. Presidio i confini della famiglia e presidio i confini dell’identità di genere. Il confine può essere presidiato con una certa delicatezza oppure erigendo muri: stiamo andando verso un’epoca in cui i muri sembrano essere la scelta effettuata - dai governi e dalla politica - per presidiare il confine”. Non la sua. “La direttrice del festival di Vienna ha scritto che il film è ‘gentilmente coraggioso’: ecco, io penso sia una definizione proprio giusta. È coraggioso perché parla di confini delicati, confini attorno ai quali magari non si sparano proiettili, ma cazzate quelle sì, davvero tante”, afferma tra l’indispettito e il divertito. “Tutti parlano, tutti hanno da dire, informati o non informati, consapevoli o inconsapevoli dei loro pregiudizi. I politici per primi dicono la loro, intervenendo pesantemente, e noi dobbiamo navigare facendo questa dissezione [usa il termine medico, nda] tra ciò che non possiamo fare e ciò che non possiamo fare solo perché siamo in questo Paese, con questo governo, in un posto e in un tempo determinati. Per questo – aggiunge - è una materia in cui bisogna conoscere molto di diritto internazionale, molto di etica, molto di politica. La parte tecnica è solo la punta di diamante del nostro lavoro, ma sotto c’è un iceberg di conoscenze che prendono in considerazione tutti i posti e tutti i tempi possibili”. Tra l’aspetto giuridico, quello etico e quello politico, Della Ratta del lavoro di Bini sottolinea quest’ultimo: “La sua è la lotta di una persona che sta dentro al servizio pubblico, in questo momento messo sotto accusa da tutti, devalorizzato, bistrattato dal governo e schiacciato dalle assicurazioni private. Proporre un servizio pubblico, e renderlo un modello, è un’azione politica”. “Il mio non è certo un film militante – conclude Matarrese – però fotografa una realtà che esiste, e se esiste vuol dire che è possibile. L’individuo qui è preso in carico dalla società lì dove in altre realtà è spesso lasciato solo: raccontarlo vuol dire dare un messaggio di speranza”. E di questi tempi, non è poco.