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Sundance 2025, oltre i premi le storie

Cinema

di Federico Buffa e Mauro Bevacqua

Courtesy of Sundance Institute | Photo by Maya Dehlin)

Un  viaggio alla scoperta dei titoli più significativi e originali presentati al Sundance quest'anno. Uno sguardo sulle opere che hanno al centro lo "storytelling"

Quando ancora storytelling non era una parola abusata, sugli schermi di Park City il “racconto di una storia” – perché di questo si tratta – ha sempre avuto un posto centrale nel successo del Sundance Film Festival, e l’edizione 2025 non fa eccezione. Detto dei premi assegnati, ha senso provare a raccontare quali sono state le storie di maggior impatto – e quelle meglio presentate, in maniera spesso innovativa – nella dieci giorni che si è appena conclusa nello Utah.

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute | photo by Brandon Somerhalder

Come see me in the good light

Cominciamo dal titolo che si è aggiudicato, a mani basse, il “Festival Favorite Award”, ovvero il premio dedicato al lavoro che più di tutti ha toccato il cuore del pubblico, indipendentemente dalla sezione di appartenenza. La direttrice del festival, Kim Yutani, lo ha definito un “documentario intimista che ci ricorda cosa voglia dire essere vivi quando affrontiamo la nostra mortalità”. Presentato tra le “Premieres”, il lavoro di Ryan White sfiora il mondo del poetry slam, genere popolarissimo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio (lo fotografò benissimo nel 1998 Marc Levin, che proprio al Sundance trionfò con “Slam”), ma solo per concentrarsi sulla storia personale di Andrea Gibson (prima poetessa di sempre a vincere, nel 2008, il Women of the World Poetry Slam) e della sua compagna Meg Falley, anch’essa scrittrice. A Gibson viene diagnosticato un tumore alle ovaie: “incurabile”, la sentenza emessa dai medici. Gibson e Falley però non si arrendono e la battaglia che conducono davanti alla macchina da presa di White ha la forza di quelle “spoken words” che una volta pronunciate sembrano funzionare non solo da argine alla disperazione ma da continua ispirazione. Fino al trionfale ritorno sulle scene – dopo anni di chemio/radio terapia - con la serata al Paramount Theater di Denver andata in scena a fine maggio 2023.

 

 

Andre is an idiot

Il tema è simile: ad Andre Ricciardi – l’idiota del titolo - viene diagnosticato un tumore al colon al quarto stadio, il più avanzato (aspettativa di vita media appena superiore ai tre anni). Ma guai ad aspettarsi lacrime & disperazione: si finisce per ridere molto più che piangere in questo documentario che riesce miracolosamente a stare in equilibrio tra commedia e tragedia. Quest’ultima si prende, inevitabilmente, il finale, ma la personalità unica, strabordante e sopra le righe di Ricciardi assicura che gli 88 minuti del lavoro del suo amico Anthony Benna siano un inno divertente e divertito alla vita più molto più che un’elegia funebre. E per Benna, come per Dostoevskij, “l’idiota” Ricciardi diventa esempio di uomo che vive la sua esistenza completamente votato all’amore e alla relazione con l’altro.   

 

 

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute

Coexistence, my ass

Altra personalità fortissima al centro di un altro splendido lavoro (stavolta nella sezione World Documentary) è quella di Noam Shuster Eliassi. Professione stand-up comedian, ma transitata dal campus di Harvard e dalle sale riunioni della Nazioni Unite, Shuster Eliassi ha nella sua storia personale il seme capace di far germogliare la sua arte. Nonni rumeni sopravvissuti all’Olocausto, madre ebrea nata in Iran e padre a Gerusalemme, ha trascorso la sua infanzia nella comunità Neve Shalom della capitale israeliana, dove ebrei e palestinesi vivono per scelta (e in armonia) fianco a fianco. Ma questa “coesistenza” appare sempre più improbabile – da qui il titolo… - a ogni notizia che arriva da Gaza e dintorni. C’è una dimensione politica e militante nel lavoro di Shuster Eliassi ma c’è anche una vena irriverente e dissacrante nella sua arte comica che fa di questo documentario un autentico gioiello.

 

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute

East of wall

Un’altra splendida figura femminile (sempre di più al Sundance negli ultimi anni), un altro omaggio alle Badlands (già cantate da Bruce Springsteen). Lei è Tabatha Zimiga, alleva cavalli, ha da poco perso il marito, suicida, e si ritrova a gestire da sola il ranch in cui vive. Da sola per modo di dire: Tabatha, oltre a sua figlia Porshia, promettente cowgirl, ospita ragazze e ragazzi sbandati della zona cui offre un tetto e un minimo di stabilità, tra mille difficoltà (anche economiche). I cavalli, il mondo del rodeo, il West che ancora fa parte dell’immaginario americano sono i personaggi aggiunti a un film nato dall’incontro tra Zimiga e la regista Kate Beecroft e presentato nella sezione NEXT, dove da sempre confluiscono storie tutt’altro che convenzionali.

 

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute

Zodiac killer project

Non la storia, ma il modo in cui viene trattata dal regista (e artista multimediale) Charlie Shackleton giustifica l’inclusione in questa selezione di titoli anche di “Zodiac killer project”, anch’esso titolo presente nella sezione NEXT. Sul killer dello zodiaco si sono già prodotti film (lo Zodiac di David Fincher su tutti) e libri (le inchieste a firma Robert Graysmith la fanno da padrone) ma Shackleton viene attratto dalle teorie di tale Lyndon E. Lafferty, che firma un altro volume intitolato “The zodiac killer cover-up”. Sembra fatta per ottenerne i diritti per la trasposizione al cinema, tanto che il regista è già alla ricerca di location attorno alla Bay Area, per ambientarci il suo lavoro. Di colpo però Lafferty nega i diritti, e Shackleton si ritrova con nulla in mano. “Cosa avremmo fatto/come avremmo girato se avessimo avuto i diritti della storia?”: la risposta è in quest’opera singolare e divertente che include gli scambi di opinione fuori campo tra regista e produttore.

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute

2.000 meters to Andriivka

Dopo aver vinto tutto (prima il premio del pubblico al Sundance nel 2023, BAFTA e Oscar l’anno successivo) con “20 days in Mariupol”, il filmmaker e corrispondente Mstyslav Chernov torna a Park City e questa volta si mette in tasca il premio per la miglior regia nella sezione “World Cinema Documentary”. L’avanzata da parte dei soldati ucraini in una striscia di foresta lunga due chilometri verso la cittadina di Andriivka, obiettivo da riconquistare, è seguita metro dopo metro, con la camera di Chernov in trincea al fianco dei soldati. Ad alcuni di loro riesce, nei momenti di respiro, a far raccontare la loro storia; la sua voce fuori campo completa il quadro anticipando il loro destino finale (spesso tragico). Si spara, si curano i feriti e si piangono i morti, ma alla fine si entra ad Andriivka da vincitori. Solo per scoprire che la cittadina non esiste più, ridotta a un ammasso di macerie, su cui si issa comunque la bandiera giallo-blu che ne certifica l’avvenuta riconquista da parte delle forze ucraine. L’insensatezza della guerra per Chernov è tutta qui, e nella nota sui titoli di coda dove ci fa sapere come, nel frattempo, Andriivka sia già ritornata sotto controllo russo.

 

 

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute | photo by Mstyslav Chernov

Mr. Nobody against Putin

Il conflitto russo-ucraino fa da sfondo anche al lavoro di David Borenstein presentato nella sezione “World Cinema Documentary”. Solo che – particolare non da poco – la realtà osservata qui è quella russa, perché la storia si svolge a Karabash (città degli Urali celebre solo per essere la “più inquinata al mondo”). Qui Pasha, il protagonista, insegna nella stessa scuola primaria dove ha studiato da ragazzino e segretamente ne filma per due anni la graduale trasformazione da luogo di educazione a luogo di indottrinamento politico (la storia e i fatti dell’attualità vanno letti e presentati in un certo modo) e di addestramento militare (le armi entrano in classe, caratteristiche e funzionamento diventano oggetto di insegnamento). Prima di essere costretto ad abbandonare la sua (amata) patria portando con sé tutte le immagini girate.

 

 

 

Foto: Courtesy of Sundance Institute | photo by František Svatoš

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