La città proibita, vivere e morire a Roma tra amore e Kung Fu. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, Gabriele Mainetti torna al cinema con un’emozionante e adrenalinica opera che centrifuga arti marziali e sentimenti. Sullo sfondo di una capitale multietnica, una pellicola che non ha nulla da invidiare agli spettacolari action internazionali. Un lungometraggio impreziosito dalla sorprendete protagonista, la stuntman Yaxi Liu , affiancata da Enrico Borello, Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti

La Cina è vicina. Anzi è già qui. Lo capisci subito dall’abbacinante incipit di La città proibita, nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 13 marzo. Dopo un prologo a Pechino in cui ci viene ricordato il rigido controllo delle nascite in vigore dal 1979 al 2015 che consentiva alle famiglie di avere un solo figlio, assistiamo a un’epocale compilation di mazzate, pugni e calci, tra salsa di soia, polli kung pao, zuppe di wonton, involtini primavera, scodelle di fuoco, padelle fiammeggianti, birre Tsingtao, lanterne rosse, leoni imperiali di pietra, sinogrammi. Ma non siamo in un’intricata cucina di Shanghai, bensì nel ristorante Citta Perduta, situata nella citta eterna. E a ribadirlo riecheggia una delle più note imprecazioni romanesche che  tira in ballo i defunti altrui, ovviamente pronunciata da un giovane capitolino a cavallo di una Vespa. Tant’è che titolo provvisorio del film era  Kung-fu all'amatriciana.

Tra Kill Bill e Vacanze Romane

Ed è una fortuna che sia stato cambiato, Perché il film di Gabriele Mainetti non c’entra alcunché né con le italiche parodie sullo stile di Ku-Fu? dalla Sicilia con furore e nemmeno con la spensieratezza di opere come Shaolin Soccer. Gabriele Mainetti omaggia il Quentin Tarantino di Kill Bill, ma pure il William Wyler di Vacanze Romane. Il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot ama i suoi personaggi quanto i padri amano i figli nelle sceneggiate napoletane. E il risultato è un titolo capace di amalgamare, con la perizia di un alchimista, il Wǔxiá della tradizionale orientale con il melodramma di Giacomo Puccini e Giuseppe Verdi. Non a caso uno dei personaggi si chiama Alfredo, come il celebre innamorato de La Traviata.

Una storia sempice ma mai banale

La sceneggiatura di La città proibita, scritta dal regista insieme a Stefano Bises e Davide Serino (già autori dello script della serie M – Il figlio del secolo) è elementare, ma mai banale perché come scriveva Boris Pasternak: “Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, in un’incredibile semplicità”. Una storia d’amore e di vendetta ambientata nella Città eterna, mai così viva e multietnica. Mei, una giovane cinese dal misterioso passato, campionessa di arti marziali, arriva a Roma in cerca della sorella scomparsa. Il cuoco Marcello e sua madre Lorena gestiscono il ristorante di famiglia tra i “buffi” del padre Alfredo, che li ha abbandonati per rifarsi una vita con un’altra donna. Quando i loro destini si incrociano, Mei e Marcello sfidano secolari pregiudizi culturali e antagonisti senza pietà, in una sfida senza esclusione di colpi. Ma, talvolta, la passione risulta più forte di ogni legge, esclusa quella del desiderio.

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La città proibita di Gabriele Mainetti. Le interviste al cast. VIDEO

In ricordo di Bruce Lee

Con il contagioso entusiasmo di un ragazzo, appassionato di Bruce Lee e di una pietra miliare come L’Urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente unito all’autorevolezza di uno dei pochi cineasti italiani capaci di girare sequenze d’azione che niente hanno da invidiare ai kolossal d’oltreoceano, Gabriele Mainetti ci porta a spasso per una Roma “City of My Soul”, per citare un celebre verso di Lord Byron. Splendidamente fotografata dal talentuosissimo Paolo Carnera, la capitale è una sorta di personaggio aggiunto. Ci si perde volentieri tra i sampietrini e persino tra le buche, mentre si manifestano meraviglie tipo il Colosseo, viste mille volte sullo schermo. Ma il film riesce nel miracolo di rendere nuovo, pure il già visto.

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La città proibita, Gabriele Mainetti porta il kung fu a Roma

Il cast: da Enrico Borella a Sabrina Ferilli, da Marco Giallini a Luca Zingaretti

Gran parte della riuscita di La città perduta è da attribuire al cast. Grazie agli attenti e amorevoli suggerimenti del regista, la trentatreenne stuntman Yaxi Liu (controfigura di Liu Yifei nel live action Disney di Mulan) si trasfigura in un’attrice con grazia e senza forzature. Enrico Borello (Settembre, Lovely Boy, Il principe di Roma, La serie Supersex) nei panni di Marcelo, possiede quegli “occhi allegri da italiano in gita” (cit. Paolo Conte) e il sorriso triste di chi ha perso la chiave del cassetto dei propri sogni e non ha manco più voglia di cercarla. Un ragazzo rosolato dal lutto, che si lascia vivere tra uno spaghettino cacio e pepe e un rigatone alla carbonara. E La città proibita ci offre una delle più potenti e dolenti interpretazioni di Marco Giallini degli ultimi anni. Canuto, meschino, feroce gangster di livello medio basso, reduce nostalgico di un Romanzo Criminale ormai finito nella sezione remainder di una periferica libreria, Annibale è fuori dal tempo. Eppure, ti commuove quando canta con la voce di catrame La canzone dell’amore perduto di De André. Forse aveva ragione Giordano Bruno: “L’uomo non è cattivo, è solo infelice”. Come se non bastasse, Sabrina Ferilli è una madre e una moglie romana mai caricaturale. Una donna tradita e offesa dal mondo, pronta a regalare le 500 cravatte del marito fedifrago e al tempo stesso unico conforto per quel figlio afflitto e solo. E, al solito, a Luca Zingaretti, basta uno sguardo e una manciata di inquadrature per ricordare, ancora una volta, al pubblico e alle aspiranti star che non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori.

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La Città Proibita e il cinema secondo Gabriele Mainetti

Un film popolare e internazionale

La città proibita prende a calci il razzismo, quello dichiarato e quello strisciante, abbraccia l’inclusività senza articolesse o pipponi. Un film sincero, vibrante, sorprendente e in cui, per una volta, la colonna sonora non è una gabella da pagare a mode effimere ma una virtuosa cornice musicale in grado di amplificare le emozioni, passando con disinvoltura da E se domani di Mina a Che ci frega del rapper di origine asiatiche Maggio. Insomma, un notevole esempio di cinema popolare e al tempo stesso internazionale. Da vedere assolutamente al cinema.

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