Perché Fantozzi siamo tutti noi

Elisabetta Villaggio, figlia di Paolo, ha annunciato che il 27 marzo il primo film di “Fantozzi” tornerà al cinema per festeggiare i primi cinquant’anni dalla sua uscita. Ed è una notizia che apre a una serie di riflessioni interessanti da fare. Innanzitutto, partendo dal principio, è importante ribadire l’ovvio: Paolo Villaggio non era Ugo Fantozzi e Ugo Fantozzi non era Paolo Villaggio. Erano due entità diverse, con due storie e due caratteri diversi. Fantozzi era la creatura di Villaggio, ma a un certo punto era diventato così famoso da essere quasi indipendente. Viveva nei racconti e nelle storie delle persone che lo avevano visto e si prestava perfettamente come anello mancante della catena sociale e come esempio ideale per raccontare le contraddizioni della società italiana. Chi era Fantozzi? Il nostro vicino, il nostro nemico? Nato prima come il personaggio di una serie di libri, divenne protagonista di un film solo nel ’75, quando la Rizzoli e la produzione si convinsero della solidità del suo successo. Fantozzi era un fenomeno sociale, inclassificabile e impossibile da riassumere in poche righe. Era una rappresentazione cattivissima, e per questo estremamente sincera, dell’Italia e degli italiani. Era la quintessenza dell’arrivismo, della povertà intellettuale e della sopraffazione della classe dirigente. Il boom economico era praticamente finito e la vita da lavoratore dipendente era la vita di molte persone. Le stesse abitudini, la stessa routine, lo stesso senso di inadeguatezza. Con il primo film di “Fantozzi”, diretto da Luciano Selce, Paolo Villaggio passava dalla bidimensionalità della carta alla tridimensionalità filmica. E trasformava Fantozzi in qualcosa di più di un semplice personaggio letterario: lo faceva diventare un simbolo, un punto d’incontro, un richiamo. Ma, attenzione, Fantozzi non era una maschera e non lo è mai stato. Nella semplificazione critica, è sempre stato associato a un concetto abbastanza chiaro e lineare. Eppure, rivedendo “Fantozzi” e rileggendo i libri di Villaggio, è evidente che c’è molto altro. Quando “Fantozzi” uscì al cinema, venne criticato da una parte della stampa perché troppo frammentato e slegato . Oggi è un vero e proprio cult e una delle migliori espressioni di satira sociale che abbiamo mai avuto in Italia. Villaggio puntava a demolire, non a demonizzare, lo stereotipo del lavoratore dipendente. Né ricco né totalmente povero, né autonomo né privo di idee. Con una famiglia, una casa e una serie di prospettive. E comunque schiacciato dal proprio senso del dovere – talvolta fuori fuoco, dissociato e mal riposto – e dal giudizio degli altri. Fantozzi non è né un eroe né un antieroe. È il personaggio secondario, la spalla, che viene finalmente avanti e reclama la sua posizione. È tragico nella sua comicità involontaria e comico nella sua serietà ostentata. Nel primo “Fantozzi”, Pina, la moglie del protagonista, è interpretata da Liù Bosisio, poi sostituita da Milena Vukotic. Il successo del film fu così grande che Bosisio rinunciò al suo ruolo perché quando andava in scena in teatro veniva accolta da cori e applausi. E la cosa, come racconta Neri Parenti nel documentario “Mostruosamente Villaggio”, la sconvolse. Questo forse basta per intuire una parte dell’impatto che Fantozzi ebbe sulla società della fine degli anni Settanta. E quell’impatto continua a esserci ancora oggi: è come una presenza costante, qualcosa di cui è praticamente impossibile liberarsi. Fantozzi è stato tramandato di padre in figlio, di nonno in nipote, grazie al cinema. Al di là del suo significato e del suo profondo simbolismo, Fantozzi rimane come testimonianza di un’epoca che non c’è più, ferocissima e attenta alla società, pronta a dare al pubblico ciò che il pubblico non solo non si aspettava ma che non voleva nemmeno. E cioè uno specchio in cui rivedersi e riscoprire le proprie abitudini. “Fantozziano” è diventato un aggettivo di uso comune, accettato e riconosciuto. Con la sua scrittura, la sua immaginazione e, ovviamente, con la sua interpretazione Villaggio è stato in grado di penetrare la cultura collettiva e di superare qualunque distanza fisica e temporale. Il basco di Fantozzi, i suoi pantaloni ascellari, la canottiera bianca, il tifo per l’Italia, la sudditanza in ufficio; la rabbia a casa, con la propria famiglia e con sé stesso, e soprattutto l’insoddisfazione costante e cocente sono coordinate specifiche che appartengono a un modo preciso di mettere in scena gli italiani. Perché Fantozzi, alla fine, siamo tutti noi.

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