"Non essere cattivo" dieci anni dopo

Dieci anni fa, al cinema, arrivava “Non essere cattivo”, l’ultimo film di Claudio Caligari, ideale conclusione di una altrettanto ideale trilogia. Scritto con Francesca Serafini e Giordano Meacci, prodotto – e fortemente voluto – da Valerio Mastandrea, riprendeva solo in parte i temi e gli elementi già esplorati con “Amore tossico” e “L’odore della notte”. In realtà, provava – e riusciva – ad aggiungere altri spunti e un altro tipo di complessità al racconto: più vivo, verace e feroce, forse proprio perché sorretto da una scrittura più puntuale e da un cast di nuovi attori. “Non essere cattivo” rifletteva esattamente la visione e la poetica di Caligari. Ricco, sfaccettato, deciso. Costruito sui rapporti umani, sull’amicizia di questi due ragazzoni di Ostia, perso tra le strade sterrate e le spiagge piene di aghi e di siringhe usate. Era vero, “Non essere cattivo”. Vero come può essere la cronaca. Non c’è nessuna mediazione nelle interazioni tra i personaggi, non ci sono vie di mezzo, compromessi, alleggerimenti. “Non essere cattivo” è il manifesto di un certo cinema, che è pasoliniano per un’approssimazione critica e che in realtà, per intenzioni e aspirazioni, promette di essere una novità. Caligari fa Caligari con “Non essere cattivo” . E cita sé stesso, le scene di “Amore tossico”, certe inquadrature de “L’odore della notte”. Ma non si piega né si limita a un’autocelebrazione. Innova. Lo dicevamo prima. “Non essere cattivo” è un film modernissimo e contemporaneo, che trova nelle facce di Luca Marinelli e Alessandro Borghi la sintesi perfetta: due volti sottili, scavati, con gli occhi sempre spalancati e i nervi tesi. E poi ci sono Silvia D’Amico e Roberta Mattei, che interpretano a loro volta due archetipi del cinema “caligariano”. Sono gli estremi di una cartina tornasole: accomunate dalla voglia di fare bene, di stare meglio, eppure separate dalla realtà. “Non essere cattivo” è uscito in un anno, il 2015, pieno di promesse e di speranze per il cinema italiano. Sempre in quel periodo, infatti, veniva distribuito “Suburra” di Stefano Sollima. E intanto, prima alla Festa del Cinema di Roma e poi a Lucca Comics and Games, veniva presentato “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. Un anno prima, nel 2014, usciva “Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia. E un anno dopo, il 2016, sarebbe toccato a “Veloce come il vento” di Matteo Rovere. C’era spazio per il genere, insomma. E “Non essere cattivo” non solo si inseriva perfettamente all’interno di questo contesto, ma riusciva – per il percorso di Caligari, per la potenza narrativa della storia che raccontava – a fare da collante, da ago della bilancia, tra passato e presente, tra ciò che era stato e ciò che poteva ancora essere. Per questo, ma non solo per questo, è un film importante. Umanamente, “Non essere cattivo” è stato una sorta di crocevia: il punto d’incontro per attori come Borghi e Marinelli, che citavamo prima, e per scrittori come Serafini e Meacci . È stato pure l’occasione per un gruppo di persone di conoscersi e stare insieme, di allacciare un rapporto che è andato avanti nel tempo e che dura ancora dopo dieci anni. Il cinema di Caligari è un cinema ricco per i suoi sottintesi e per i sui valori, ma povero per quanto riguarda il budget e gli spazi produttivi e distributivi. Nonostante il suo talento, nonostante la sua capacità di rimanere sempre attuale, Caligari ha ricevuto pochissimo sostegno per i suoi film. E “Non essere cattivo”, con la crociata intrapresa da Valerio Mastandrea per la sua realizzazione, ne è un esempio. Dopo dieci anni dalla sua uscita al cinema, non andrebbe solo rivisto e celebrato, ma andrebbe studiato come caso eccezionale e come apripista per una serie di autori e di autrici che tuttora provano a ricreare mondi sospesi, grigi, dove bene e male sono solo due parole e dove resiste un torpore di sensi e di opportunità. Sembra più il purgatorio, l’Ostia di “Non essere cattivo”: una dimensione a metà, dove più che vivere si sopravvivere e dove l’obiettivo finale è non perdere la propria umanità. Questa drammaticità di fondo, però, non deve mettere in secondo piano l’incredibile ironia di cui alcune sequenze sono piene: i personaggi di Marinelli e Borghi, proprio in questa continua ricerca realistica, vivono insieme qualunque cosa e le loro reazioni – quando si prendono a schiaffi, e si sono presi a schiaffi per davvero; o quando si fermano in mezzo a una strada, di notte, spaventati dalle allucinazioni – riescono a restituire agli spettatori una comicità surreale e travolgente.

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