“Nosferatu” di Eggers, un film in cui i vampiri siamo noi

Uno dei grandi successi cinematografici di questi primi giorni del 2025 è sicuramente il “Nosferatu” di Robert Eggers, diventato rapidamente uno dei film più discussi delle vacanze . Eggers ha fatto un lavoro particolare sulla figura del vampiro, provando a restituirle la sua dimensione più fisica e bestiale, rifacendosi direttamente alla mitologia più che alla tradizione letteraria o cinematografica . Gabriella Giliberti, critica cinematografica e autrice, ha scritto un libro sui vampiri, “Love song for a vampire. Etologia del vampiro, da F. W. Murnau a Taika Waititi”, in cui non solo racconta la trasformazione del vampiro come figura letteraria ma in cui ne analizza anche il valore simbolico e la forza immaginifica. “Nosferatu”, dice, è un film particolarmente curato dal punto di vista estetico, che esplora il sesso e che si concentra principalmente sulla sua protagonista, la Ellen di Lily-Rose Depp. Grazie all’opera di Eggers, aggiunge, forse ci sarà finalmente modo per riscoprire e rivedere anche il “Nosferatu” di Herzog, quello che ha dato per primo un’anima ai vampiri. Secondo lei, perché il vampiro è ritornato al centro del racconto cinematografico? È un processo che non è iniziato oggi, con “Nosferatu”. Ricordiamoci che l’anno scorso, a Venezia, c’era anche “El Conde” di Pablo Larraín . E poi non credo che sia un fenomeno limitato al vampiro; credo che riguardi il mostruoso in generale. Nei prossimi mesi, vedremo ben due “Frankenstein” . E questo perché il mostro è sempre stata una grande metafora per raccontarci. Eggers, di diverso, cosa fa? Ci dice che i vampiri non sono più tra di noi o diversi da noi; ci dice che i vampiri siamo noi. Per me, “Nosferatu” vuole ricordarci che alla fine di tutto non rimane altro che la morte. Non la speranza, attenzione. E se ci facciamo caso, è quello che sta succedendo intorno a noi, nella vita di ogni giorno: la disperazione bruciante, l’ansia per il futuro; quanta sofferenza nelle notizie quotidiane. Eggers, se vogliamo, chiude un po’ il cerchio aperto dal “Nosferatu” di Murnau. In che modo? Il cinema di genere inizia proprio con l’espressionismo tedesco. E il vampiro, per me, è la rappresentazione perfetta del cinema: vive nel buio, si ciba delle emozioni delle persone; ammalia, è carismatico e conquista proprio come un film. C’è questo grande ritorno perché, evidentemente, abbiamo quasi bisogno di trovare un capro espiatorio: qualcosa su cui sfogarci. Se parliamo del punto di vista più ironico, quello che racconta meglio il vampiro è proprio Larraín. Dopotutto, chi sono i vampiri se non quella classe dirigente che non muore mai e che si rigenera sempre? Il vampiro, come strumento narrativo, rimane estremamente versatile. E si presta, proprio come diceva lei, a diverse interpretazioni. Dove risiede questa universalità? C’è una frase che dice l’Orlok di Eggers che credo centri perfettamente il punto. Io, dice, non sono niente di più di un appetito. I vampiri, ovviamente, non sono solamente un appetito, ma dalla letteratura in poi hanno sempre rappresentato tutto ciò che è un vizio, che è vietato. Per questo motivo il vampiro non si riflette se messo davanti allo specchio: è così perverso da non avere un’anima. I riflessi dei vampiri, alla fine, siamo noi. Ciò che ci unisce è un legame di puro desiderio. È ovvio che ci sono tipi diversi di perversione; c’è un limite a tutto. Ma la perversione stessa cambia a seconda di chi la guarda. E il vampiro offre una vera e propria libertà nel racconto. Se è arrivato fino a noi, è grazie ai romantici. Che cosa ha di nuovo il “Nosferatu” di Eggers? Prova a raccontare un vampiro che, in letteratura, non esiste. Prova a raccontare la creatura del folklore, il non-morto, che non si chiamava nemmeno così, vampiro, ma che aveva tantissimi nomi differenti, a seconda del paese e della tradizione. La creatura di Eggers è profondamente bestiale e rimette in primo piano la mostruosità. Eggers sembra quasi rifiutare la lettura più romantica del vampiro, quell’immagine che le persone cercano costantemente. E questo perché sono profondamente condizionate. Da cosa? Dal cinema. Abbiamo quasi dimenticato com’è davvero il "Dracula" di Stoker: è un’allucinazione collettiva, qualcosa di molto poco romantico. In questo “Nosferatu”, il vampiro diventa il desiderio sessuale, che va oltre il genere, perché brama il sangue. E coincide, allo stesso tempo, con la solitudine della protagonista. Quello che unisce i due personaggi è una relazione tossica. E alla base di questa relazione resistono l’ansia e la paranoia. Non a caso, il vampiro viene spesso associato al topo, che in psicologia rappresenta proprio l’ansia. Per un periodo, il vampiro ha occupato un’altra posizione. Una molto più vicina all’essere umano. Anzi, talvolta è stato visto addirittura come l’eroe. Come si fa ad abbandonare così nettamente il bestiale? Secondo me, più che renderlo più simile o più vicino a noi c’è stato il tentativo di renderlo migliore. La differenza sta tutta qui. La parola mostro, soprattutto adesso, viene usata come qualcosa che ci deve rincuorare: se quella persona è un mostro, dobbiamo essere felici di non somigliarle, di essere diversi. E in realtà spesso è molto più difficile scoprire chi è davvero il mostro: pensiamo a “Frankenstein”. Quando ai vampiri viene restituita un’anima, è un po’ come una compensazione. Per chi? Per noi, perché ci permette di riempire, almeno narrativamente, una nostra mancanza. Negli anni Settanta, c’è stato il grande passaggio, con i mostri che diventano maschere, figli sani di una società malata. Successivamente, c’è stato come il bisogno di abbracciare un vero e proprio senso di umanità. Uno dei libri e dei film più interessanti, in questo senso, è “Lasciami entrare”, che ci dice benissimo chi sono i veri mostri. Ed è interessante anche quello che è stato fatto con “Twilight”: non sono una grande fan, lo ammetto, ma vedere il vampiro che passa dall’essere un simbolo del vizio a essere un simbolo di valore è uno spunto che merita più di una riflessione. A lei è piaciuto questo “Nosferatu”? Moltissimo. Forse, mi è piaciuto più esteticamente che narrativamente. Perché capisco anche il discorso che fa Eggers, che si è voluto confrontare con un’opera che per lui è sempre stata importante, che ha addirittura portato in scena con uno spettacolo quando aveva 17 anni. “Nosferatu” doveva essere il suo secondo film, poi doveva essere il terzo. E alla fine è diventato il quarto. Ci è arrivato con una serie di pressioni addosso e soprattutto con una major. Il che, volenti o nolenti, ha finito anche per condizionare il risultato finale. Non dimentichiamoci che “Northman”, al botteghino, è andato male. E queste pressioni hanno giocato sicuramente un ruolo nella resa di “Nosferatu”. Probabilmente, l’avrebbe fatto diversamente se avesse avuto la stessa libertà che ha avuto con “The Witch” o con “Lighthouse”. In “Nosferatu”, l’attenzione è tutta per Ellen. È un film sulle coppie. Il personaggio di Orlok è difficile da digerire, no? Siamo abituati a immaginarlo in modo diverso, il vampiro. Ma alla fine è quello il Nosferatu. Qual è il miglior film sui vampiri? Se parliamo dell’interpretazione più romantica e barocca del vampiro, credo che uno dei film migliori sia proprio il “Dracula” di Francis Ford Coppola. Ma anche “Intervista con il vampiro” di Neil Jordan. A me piace il vampiro un po’ dandy, quello sensuale ed erotico, che dentro di sé conserva una cattiveria importante, frutto di un’eternità che lo sfinisce. E infatti, a un certo punto, c’è come il desiderio di essere liberato dalla propria immortalità. Se c’è un film che, secondo me, andrebbe riscoperto, è il “Nosferatu” di Herzog. Io credo che Kinski abbia dato una delle interpretazioni più belle del vampiro; forse, la sua è la mia interpretazione preferita in senso assoluto. Per me l’arrivo del “Nosferatu” di Herzog ha coinciso con il il momento in cui i vampiri hanno cominciato ad avere un’anima.

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