C'eravamo tanto amati: l'Italia di Scola cinquant'anni dopo

Dopo cinquant’anni, “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola continua a essere un film straordinario. Non c’è un momento invecchiato male o fuori posto. Tutto è preciso, puntuale, affilatissimo e brillante. Dalla primissima scena in bianco e nero in cui vengono presentati i tre protagonisti fino alla fine, quando il film si chiude con un fermoimmagine. Scola, Age & Scarpelli hanno scritto una storia che è come un grande valzer: sale, scende, fa dei giri immensi e poi ritorna quasi all’inizio. Ciò che cambia, e cambia profondamente, sono le promesse. Antonio, Gianni e Nicola, interpretati rispettivamente da Nino Manfredi, Vittorio Gassman e Stefano Satta Flores, hanno combattuto nella Resistenza convinti di poter cambiare il mondo e di poter contribuire attivamente alla nascita di una nuova Italia. Dopo la fine della guerra e gli anni Cinquanta, però, hanno dovuto fare i conti con la realtà: non c’è stata nessuna rivoluzione sociale; i ricchi continuano a essere ricchi e i poveri continuano a essere poveri. La borghesia si trova tra due fuochi, e non ha nessun modo di farsi portatrice di un nuovo equilibrio. Antonio, Gianni e Nicola avevano dato ogni cosa nella speranza di poter essere finalmente felici. E invece si sono ritrovati davanti alla sfida più difficile di tutte: la vita. Antonio s’innamora di Luciana, interpretata da Stefania Sandrelli; va con lei a teatro, la segue, ma poi viene tradito. E non tanto da Luciana, che s’invaghisce di Gianni, ma da sé stesso. Era sicuro, praticamente certo, di una cosa che non aveva alcun futuro. E così la ruota gira di nuovo: Nicola s’atteggia a grande intellettuale e critico cinematografico, e trascorre tutta l’esistenza cercando di essere rassicurato. Lui sapeva come aveva fatto Vittorio De Sica a far piangere il protagonista di “Ladri di biciclette”; lo sapeva. Eppure, durante una puntata di “Lascia o raddoppia”, perde. Gianni, al contrario, diventa un avvocato, s’avvicina a una famiglia di potenti palazzinari e preferisce la ricchezza alla grande promessa di felicità per tutti. Si trasforma, in un certo senso, nel suo peggior nemico. Ma riesce comunque a conservare una scintilla di sé stesso – quella più malinconia. Scopre che la soddisfazione personale non coincide con la contentezza e che essere ricchi non significa non aver più bisogno di niente: significa essere infelici, ma in un modo totalmente diverso. I tre amici si prendono e si perdono; si incontrano quasi a intervalli regolari della loro vita, e finiscono per osservarsi da lontano. Ciò che non aveva neppure diviso la Seconda guerra mondiale viene separato dal boom economico. La storia si contrae nuovamente ed è qui che “C’eravamo tanto amati” dimostra tutta la sua straordinarietà. Scola, Age & Scarpelli hanno parlato di tre amici per parlare dell’Italia. E poi hanno parlato dell’Italia e dei suoi cambiamenti per parlare di tre amici che, insomma, sono rimasti gli stessi. Anche dopo la guerra, dopo gli anni Settanta, il fallimento, le delusioni e la felicità mai arrivata. I più bravi, del resto, fanno così: partono dal dettaglio più piccolo per poi spostarsi al quadro più grande, e una volta arrivati al quadro più grande trovano una strada per tornare indietro e concentrarsi nuovamente sul dettaglio più piccolo. “C’eravamo tanto amati” è la storia di una generazione intera, di una generazione che, in parte o del tutto, ha finito per odiarsi e di quella promessa di felicità e di speranza di cui parlavamo all’inizio. Funziona un po’ come uno specchio: chiunque ci si può rivedere dentro. Anche, e questa è la cosa eccezionale, chi quegli anni non li ha vissuti e però prova una delusione ugualmente cocente. La scelta stessa del finale – gli amici di Gianni scoprono che è diventato ricco, vanno da lui, alla sua villa, lo vedono ma non gli parlano – ha un senso preciso. I piani del racconto si ribaltano per l’ennesima volta – gli amici pensavano che Gianni fosse povero, che avesse bisogno di aiuto – e quella che viene fuori è una verità distorta, affilata, che non ha la minima intenzione di rassicurare nessuno. Con “C’eravamo tanto amati”, Scola ha reso omaggio al cinema italiano e ai registi italiani: in una scena ci sono Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set de “La dolce vita”; più avanti, si vede una parte di un vero discorso di Vittorio De Sica . Erano tempi diversi. Nel 1974, quando “C’eravamo tanto amati” uscì per la prima volta in sala, politica, arte e impegno civile si muovevano insieme, fianco a fianco, e non si poteva parlare di uno senza parlare dell’altro. E quindi la vita, presa come spazio, era complessa, piena, ricca di sfumature. Mai solo bianco o solo nero. A parte i già citati Manfredi, Gassman, Satta Flores e Sandrelli, nel cast di “C’eravamo tanto amati” ci sono pure Aldo Fabrizi, che interpreta il padre-padrone della famiglia di palazzinari, e Giovanna Ralli in uno dei ruoli più belli della sua carriera . “C’eravamo tanto amati” è, e non c’è nessuna esagerazione nel dirlo, un classico. Uno di quei film che restano, che non vanno mai via e che riescono così bene a parlare del presente anche appartenendo chiaramente al passato.

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