Harvest, in concorso a Venezia 2024 un western fuori dal tempo. La recensione del film

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Dopo Attenberg che nel 2010 vinse la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, Athina Rachel Tsangari torna al Lido con un' opera metaforica che racconta il trauma dell'arrivo della modernità e l'avvento della rivoluzione industriale. Con Caleb Laundry Jones

Il libro della Genesi racconta che Dio creò i cieli e la terra in 6 giorni e il settimo si riposò. Harvest, invece, narra una settimana di autentico inferno, dove il riposo pare bandito in ogni sua forma. La pellicola, presentata in concorso alla 81.ma mostra del cinema di Venezia, è un curioso esempio di western ambientato in un luogo non definito e in un tempo impossibile da determinare. La sola certezza, al termine la visione, è che il motto latino Homo homini lupus (“ogni uomo è un lupo per un altro uomo) è sempre valido a prescindere dal secolo e dallo spazio in cui ci si trovi.

This is the End

Come insegna Giuseppe De Santis in Non c’è pace tra gli Ulivi, figuriamoci nella immaginaria terra di Harvest. Se non è la trasfigurazione cinematografica della Waste Land tradotta in versi da Thomas Eliott, poco ci manca, Uomini vuoti, impagliati si appoggiano l’un l’altro. Persone che stanno perdendo il senso della comunità. L’innocenza pare avere i giorni contati. Franco Battiato avrebbe cantato la strofa di Shock in my Town: “Stiamo diventando come degli insetti; simili agli insetti.” Tant’è che ameni coleotteri si palesano all’inizio della pellicola insieme a lumache che non strisciano su lame di rasoio, ma risultano decisamente presagi di malaugurio, Si miete il grando ma il tristo mietitore si avvicina come il buio. Obnubilati da funghetti lisergici, instupiditi da stravaganti rituali pagani, gli abitanti non amano gli stranieri, ma nemmeno tra di loro vanno molto d’accordo. E il progresso, come il drago delle favole è pronto a incenerire quella società arcaica. Al solito la cura è peggio della malattia. E con l’Apocalisse alle porte, l’umanità sovente dà il peggio di sé. In un crescendo di “ho solo obbedito agli ordini”, “stavo facendo il mio lavoro”, e “non è una mia responsabilità”, il mondo rurale va in frantumi. Non serve a molto mappare il territorio, dare un nome alle cose, catalogare nomi e piante. A trionfare è sempre la catastrofe. E l’imbelle contadino, interpretato da Caleb Landry Jones (straordinario in Dogman) si ritroverà solo e disperato ad arare il nulla mentre il mondo brucia, D’altronde non siamo sempre più soli visto che fuori continua a piovere in un mondo sempre più freddo e brutale?

approfondimento

Mostra del Cinema di Venezia, oggi Queer di Luca Guadagnino

 

Le parole della regista

"Con questo adattamento del romanzo Harvest di Jim Crace abbiamo avuto la possibilità di esaminare il momento in cui tutto ha avuto inizio per noi che nel XXI secolo siamo eredi di una storia universale di perdita della terra. Per me, Harvest è un film sulla resa dei conti. Cosa abbiamo fatto? In che direzione stiamo andando? Come possiamo salvare il suolo, il sé all’interno dei beni comuni? Harvest si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della “rivoluzione” industriale. Che rivoluzione non è stata. Una comunità agricola viene sconvolta da tre tipi di forestieri: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari, tutti archetipi di cambiamenti sconvolgenti.
Il futuro non fa parte della storia: accadrà fuori dallo schermo, in un mondo che non siamo destinati a vedere. Non ci sono eroi. Solo persone comuni e imperfette. L’ho immaginato come un dagherrotipo, o il suo equivalente moderno, una Polaroid esposta lentamente al crepuscolo."

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