Green Border, la recensione del film di Agnieszka Holland al cinema dall'8 febbraio

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Paolo Nizza

Paolo Nizza

La regista racconta la tragedia dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa, intrappolati sul "confine verde” tra Bielorussia e Polonia; un coraggioso e toccante atto di denuncia. Premio speciale della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia

E' verde il confine tra Bielorussia e Polonia. Ma questa volta non si tratta affatto del colore della speranza. Ne è perfettamente consapevole Agnieszka Holland che, non a caso, opta per un ruvida fotografia in bianco e nero per girare "Zielona Granica" (Green Border) il lungometraggio presentato in concorso alla 80.ma Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il premio speciale della Giuria. La settantaquattrenne cineasta polacca, due volte candidata al premio Oscar, porta al Lido un’opera che dirige l’attenzione su una tragedia ancora attuale. Una pellicola che attraverso immagini potenti e strazianti parla al cuore dello spettatore e lo invita a riflettere sulle scelte etiche con cui tutti quotidianamente ogni essere umano deve confrontarsi.

Zielona Granica -  The Green Border, la trama del film

"The Green Border" inizia con una sequenza solo in apparenza rassicurante. Su un aereo della Turkish Airlines, una famiglia siriana proveniente da Harasta, città a Nord Est di Damasco fugge dalla guerra. I profughi sperano di raggiungere la Svezia ma la prima tappa del lungo viaggio è la Bielorussia. Sullo stesso aeroplano viaggia pure una donna afgana che sogna un futuro in Europa, lontano dai talebani. Tuttavia quella che doveva essere l’inizio di un sogno di libertà si trasforma ben presto in incubo che pare senza fine. Il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnko ha infatti architettato un crudele piano per provocare una crisi geopolitica internazionale. Nel tentativo di provocare l’Europa, i rifugiati sono attirati al confine dalla propaganda che promette un facile passaggio verso l’Unione Europea, ma in realtà i profughi si ritrovano prigionieri delle insidiosissime e mefitiche foreste paludose che costituiscono il cosiddetto “confine verde” tra Bielorussia e Polonia e costretti a subire le violenze e i soprusi della polizia di frontiera. Ad aiutare gli esuli sarà Julia, una psicologa polacca che ha perduto il marito a causa del Covid, mentre Jan, una giovane guardia che aspetta una figlia da sua moglie, comprenderà a sue spese l’orrore a cui sta partecipando.

 

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L'Uovo del serpente

“Chiunque compia il minimo sforzo, può vedere che cosa ci riserva il futuro; è come l'uovo di un serpente: attraverso la fine membrana si riesce a discernere il rettile perfettamente formato” con queste parole il dottor Vergerus (Heinz Bennent) presagiva l’avvento del Nazismo in Europa in "L’Uovo del serpente", il film diretto da Ingmar Bergman nel 1977. E  trent’anni dopo "Europa Europa", Agnieszka Holland ci ricorda con "The Green Border" che l’uovo potrebbe schiudersi un’altra volta. Senza mai ricorrere alla pornografia del dolore, il film ci mostra una realtà che lascia senza fiato. A ferire è soprattutto la crudeltà con cui vengono trattati i rifugiati mediorientali e africani, accusati dalle autorità polacche di essere “proiettili umani al soldo di Putin e di Lukašėnko". Sicche si resta spiazzati, nel vedere l’atteggiamento di grandissima accoglienza e solidarietà adottato dalla Polonia nel 2023 nei confronti degli Ucraini in fuga dalla guerra. Insomma, in Europa ancora una volta albergano due pesi e due misure. E vengono in mente le parole della canzone di "Mourir Mille Fois" di Youssoupha, che accompagnano il finale del lungometraggio. Ed è davvero come se morissero mille volte gli sventurati protagonisti di questa terrificante odissea. Vittime di un crudele gioco dell’oca che li riporta quasi sempre allo spaventoso punto di partenza.

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