Tra amore, bullismo e lockdown, arriva al cinema un lungometraggio che emoziona e fa riflettere. Ecco cosa ci ha raccontato il regista
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“Se hai l’amore in corpo non serve giocare a flipper”. Così diceva il regista Rainer Fassbinder che nella vita e nella carriera è sempre stato un ragazzaccio. E in fondo pure il nuovo film diretto da Paolo Ruffini ci ricorda che l’amore è ancora il virus più contagioso. Prodotto da Vera Film con Minerva Pictures, l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche Di.Te. di Giuseppe Lavenia, Simone Valenza, e distribuito da Adler Entertainment, Ragazzaccio è un intrepido romanzo di formazione. Ambientata nel marzo 2020, quando l’Italia entrava in lockdown, un’opera in grado di parlare a tutti. Interpretata dai fuoriclasse Giuseppe Fiorello, Massimo Ghini e Sabrina Impacciatore, affiancati dai giovanissimi e talentuosi Alessandro Bisegna e Jenny De Nucci, il lungometraggio condanna con fermezza il bullismo, ma cerca di comprendere il perché di certi comportamenti. Abbiamo incontrato il regista Paolo Ruffini, che ancora una volta dimostra di essere un autore fuori dagli schemi, impegnato a raccontare realtà che molti ignorano, o peggio, banalizzano.
Ragazzaccio, l'intervista a Paolo Ruffini
Credo che Ragazzaccio sia un’opera cerchi di superare corrivi cliché, nel tentativo di capire il perché di certi comportamenti
Sì. Il film parla di un bullo che fa delle cazzate. E la pellicola non lo giustifica, ma cerca di capirlo. Anche perché non è che uno si sveglia la mattina e inizia a comportarsi da bullo. Cerchiamo di comprendere le fragilità che hanno portato un ragazzo ad agire in un certo modo. Spesso lo stesso bullo viene a sua volta bullizzato. Per esempio, io ero un ragazzo vivace, di quelli intelligenti che non si applicano e quando commettevo una cazzata , venivo buttato fuori dalla classe. Così ha scuola ho imparato l’esclusione. E non è una cosa meravigliose. Perché le cazzate più grosse le ho fatte quando stavo fuori. Oggi si parla molto di inclusione, ma siamo noi adulti che dobbiamo imparare a essere inclusivi. Molti ragazzi già lo sono. Agli studenti delle elementari non importa il colore della pelle, o come ti acconci i capelli. La natura dell’essere umano è inclusiva. È il condizionamento adulto a porre le distanze, le differenze a sottolineare le diversità
Ragazzaccio è anche uno dei rari esempi di film italiani che trattano il tema della Pandemia?
Per me è un mistero. Nessun autore italiano ha deciso di affrontare questa tematica. E in fondo il mio lungometraggio racconta una famiglia assolutamente normale. Un giornalista per farmi un complimento ha detto che il mio film sembra un esempio di cinema neo-neorealista. Ho racconto un nucleo familiare medio del hinterland milanese con una madre non manesca, ma semplicemente nervosa e con un padre anaffettivo. E soprattutto ho voluto descrivere il senso di colpa de ragazza che hanno dovuto affrontare una malattia che a loro non portava grosse conseguenze, ma che poteva far morire i loro familiari se li avessero contagiati. Insomma, come dice Mattia, il protagonista del film, il mondo faceva davvero schifo in quel momento. Ed è una cosa che abbiamo pensato tutti
Ritrovarsi a dirigere attori noti insieme a giovani esordienti a volte può risultare complicato. Hai usato qualche accorgimento?
Quando giro un film chiedo sempre una grande partecipazione agli attori durante la fase delle prove. Questo film è stato girato in una settimana con due unità e sei macchine da presa, quindi risultava indispensabile provare. Ho chiesto, compatibilmente con le norme di sicurezza vigenti allora, all’intero cast di partecipare tutti insieme a pranzi, a cene e a letture collettive, un po’ come si fa a teatro. Con questa modalità si riesce a vedere sullo schermo quello che non si può recitare, ovvero, la confidenza tra le persone e questo aiuta durante le riprese
Il Covid ci ha reso migliori, peggiori o siamo rimasti gli stessi?
Si pensava che saremo stati tutti migliori. In realtà, credo che abbia acuito la nostra parte più egoista, più insofferente. Ormai il peggio è diventato la normalità, pensa come stiamo vivendo la guerra. Oggi se provi a parlare di felicità ti becchi un TSO. Come dico nei miei spettacoli, la felicità è diventata rivoluzionaria, una grande trasgressione. Dicevamo che avremo dato di nuovo importanza all’abbraccio, al contatto e invece, terminata l’emergenza, ha prevalso ancora una volta il nostro
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Eri un ragazzaccio da giovane?
Un po’ un bulletto, non violento, ma goliardico. Mi piaceva fare gli scherzi. Nascondevo le cartelle, mettevo le unghie negli astucci. Credo sia normale la disubbidienza quando si è giovani. Mi spaventano gli adolescenti politicamente corretti, almeno quanto mi spaventano i film politicamente corretti. I ragazzi vivono una fase in cui l’errore è funzionale al miglioramento si sé stessi
Infine, a salvarci sarà l’amore?
Noi possiamo anche decidere di morire, ma non possiamo decidere di non amare. Però siamo distratti, perché siamo diventati social e meno sociali. L’amore è un evento sociale. E non credo che se Aristotele tornasse in vita direbbe che l’uomo è un animale social. Tuttavia, questa non deve essere una resa, deve essere una consapevolezza.
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Ragazzaccio, la trama del film
Mattia è un adolescente, insofferente alle regole. È uno di quelli che dalla classe vengono regolarmente sbattuti fuori, uno di quelli che certi adulti si limiterebbero a definire “come tutti gli altri”, uno di quelli che “è intelligente ma non si applica”. Mattia è arrabbiato. È arrabbiato con i suoi genitori e forse col mondo intero. Mattia è quello che comunemente si direbbe “un bullo”. Frequenta il liceo classico e nella sua mente l’incubo della bocciatura è più pesante dell’incubo del Covid-19, che pervade in Italia con l’esplosione di quella che di li a poco sarà riconosciuta come la pandemia più invasiva di tutti i tempi.
Nel silenzio ansiogeno della quarantena, Mattia passa le giornate chiuso nella sua stanza, tra una video lezione e uno scherzo di pessimo gusto con i suoi compagni. In questa situazione, però, Mattia scopre l’amore. E lo scopre attraverso l’unico modo di comunicare ai tempi del virus: i social network e DaD. Non solo l’amore che gli insegna Lucia, l’idealista e ribelle rappresentante d’istituto, ma anche l’amore per sé stessi e per la bellezza, che cerca di raccontare il suo professore di Letteratura. Infine l’amore per i suoi genitori: suo padre - uomo anaffettivo, infermiere impegnato sul fronte dell’emergenza - e sua madre - schiacciata tra l’ipocondria e la frustrazione di una convivenza forzata.
È così che Mattia trova la voglia di riscattarsi, ma soprattutto impara che la cosa più contagiosa non è il virus, ma l’amore.