Riflessioni sul Locarno Film Festival 2021, tra l'Indonesia pulp e il talento serbo

Cinema

Di Federico Buffa e Michele Pettene

"Vengeange is mine, all others pay cash” , il film che ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno 2021
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Federico Buffa, insieme a Michele Pettene, ci racconta i film, le tendenze e le emozioni che hanno caratterizzato il  74esimo Festival di Locarno

È calato definitivamente Sabato 14 Agosto il sipario – leopardato – sul 74esimo Festival di Locarno, dopo una dieci giorni cinematografica che, oltre alla solita girandola multiculturale di film, ha riportato in Piazza Grande il pubblico (vaccinato) dopo il doloroso buco del 2020. Le lacrime sul palco di Kasia Smutniak e le testimonianze commosse di molti dei registi saliti di fronte agli spettatori per presentare i loro film hanno dimostrato quanto fosse necessario ritornare al Cinema e ritornare a Locarno nella prima edizione presieduta da Giona Antonio Nazzaro, nuovo direttore artistico del festival capace di scelte coraggiose, inaspettate e mai banali, in una celebrazione del rito della sala nel canton ticinese che non ha deluso le aspettative nel periodo forse più difficile della storia del festival.

Indonesia Pulp e dorata

Cosa poteva mai scaturire dall’adattamento cinematografico dei testi del romanziere indonesiano maggiormente accostato a Quentin Tarantino se non semplicemente uno degli instant-cult di quest’edizione nonché vincitrice del Pardo d’Oro? “Vengeange is mine, all others pay cash” da solo aveva vinto il (nostro) premio di miglior titolo della kermesse ancor prima di svelare cosa celasse dietro ai titoli di testa arancioni e sbarazzini dal chiaro omaggio pulp: nonostante il basso budget a disposizione e cineprese sempre a debita distanza dai pericolosi calci volanti dei protagonisti, il film di colui che si è presentato solo come “Edwin” ha catturato molti (non tutti, bisognava essere fan di certo cinema per gradire…) con il fascino sporco dei B-movie degli anni Settanta e una strampalata storia d’amore - dall’alto contenuto erotico - tra un povero corriere impotente ma imbattibile nelle arti marziali e l’unica avversaria all’altezza capace, alla fine e rubando clamorosamente la scena, di restituire virilità e sorriso all’amato prima tradito e poi salvato. Il tutto tra le foreste e le giungle indonesiane colme di stupratori, pervertiti e povera gente, con schitarrate elettriche improvvise a scandire l’adrenalina – e il ritmo – di un piccolo e divertente tributo al Cinema scovabile solo da queste parti e forse solo con questo nuovo, impavido direttore.

Foto tratta da Instagram

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Realtà simulate

Dal Giappone agli Stati Uniti, gli schermi di Piazza Grande nel giro di due giorni hanno intercettato in modi diversi il nostro rapporto sempre più viscerale e determinante con le nuove tecnologie, i social e il videogaming. “Belle: Ryu to sobakasu no hime“ del nuovo Maestro dell’animazione del Sol Levante Mamoru Hosoda, attraverso una reinterpretazione della fiaba della Bella e della Bestia è riuscito a trasportare il pubblico in un (visivamente incredibile) mondo virtuale espanso capace di restituire linfa vitale ad adolescenti disagiati, “risorti” in un universo parallelo dove l’anonimato garantisce una protezione alle fragilità umane. Un meccanismo fondamentale in questi ultimi mesi segnati dalla pandemia e dalla quarantena, con schermi e rete a rappresentare spesso l’unica via di fuga dall’opprimente realtà: uno status mentale che “Belle” ha raccontato con la consueta delicatezza giapponese fatta di dramma e riscatto, agli antipodi dal suo “cugino” americano “Free Guy” ma con il filo comune dell’Amore puro a fare da grimaldello sociale per ritrovare la giusta via in questi tempi bui. Il film hollywoodiano, più giocoso ed esilarante, ha affrontato le conseguenze degli intrecci tra reale e giochi di ruolo per restituire dignità ai personaggi più bistrattati e “fantasma” del mondo del gaming, i cosiddetti NPC (“Non-Player Character”) ridando loro dignità e consapevolezza, addirittura orchestrando uno sciopero contro gli avidi sviluppatori capitanati da un istrionico Taika Waititi e guidati da un Ryan Reynolds irresistibile e perfetto nel ruolo di “Guy”, un NPC avanzato capace di evolversi autonomamente in vera Intelligenza Artificiale. Non i primi film di questo tipo, ma una simbolica necessità di Oriente e Occidente di interpretare quest’epoca di fusioni.

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Talento serbo

La Serbia si è presentata al Concorso Internazionale e ai Cineasti del Presente con due pezzi da Novanta come “Nebesa” e “Rampant”, entrambi non a caso con la guerra balcanica degli anni Novanta a fungere da motivo scatenante per le loro sceneggiature. Il primo, dai sorprendenti toni surrealisti, attraverso tre storie legate tra loro dalla presenza degli stessi attori protagonisti ma con ruoli ed epoche differenti, ha provato (con irriverenza e il tipico sarcasmo serbo) a riflettere su ricostruzione post-bellica, miracoli divini, folklore provinciale e magiche ipocrisie dell’arte contemporanea (provocando un po’ come fece lo svedese “The Square”); il secondo – l’opera prima di Marko Grba Singh dopo alcuni corti brillanti – sfruttando le riprese del padre durante i bombardamenti della NATO del 1999 su Belgrado, per raccontare storia personale e Storia del proprio Paese viste dal bimbo diventato uomo e poi regista ritornato a riflettere – e filmare in piena libertà – tra le mura della casa abbandonata proprio durante quei tragici giorni.

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Islanda violenta e liberal

A sorpresa l’islandese “Leynilögga” ha scalato immediatamente le classifiche di gradimento nel Concorso Internazionale sfoderando il primo vero action-movie della storia della piccola isola nordica dell’acqua e del fuoco ma soprattutto della criminalità a tasso zero, fattore che ha reso l’esplosivo “Cop Secret” – questo il titolo international – una commedia spassosa oltre che action ad alto voltaggio. Il regista, Hannes Þór Halldórsson, esordiente dalla carriera stramba, è stato prima un calciatore professionista e solo di recente si è gettato nella Settima Arte, partorendo un film fatto di inseguimenti, bombe, rapine e quadrielli dalle pistole fumanti che devono aver stupito più i pacifici spettatori dei cinema di Reykjavík che quelli di Locarno: ad essere tipici non erano più gli scenari verdi, infiniti e costellati di cavalli e pecore cui eravamo abituati bensì le battute fulminanti del più classico e raggelante humour nordico (non aspettatevi Bruce Willis, nonostante una divertente scena-omaggio) e, ancor più rilevante, le riscoperte sessuali dei protagonisti che pochi altri Paesi avrebbero saputo affrontare con la stessa disarmante freschezza e normalità.

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Personaggi catalani

“Sis dies corrents” – di Neus Ballús i Montserrat – ha portato una ventata di leggerezza e di irresistibile accento catalano nei giorni di apertura del festival, seguendo le esilaranti vicende di un operaio insofferente di una piccola impresa di riparazioni alle prese con il nuovo stagista marocchino sottoposto allo stress della prima settimana di prova mentre le assurde richieste dei clienti arrivano a raffica. Le gag si susseguono una dopo l’altra (su tutte la surreale scena del trapano nello studio della fotografa di moda), la comicità involontaria dei protagonisti è travolgente e il film un piccolo gioiello realizzato con grande originalità e attori meravigliosamente normali premiati (come era giusto che fosse) ex-aequo per la miglior interpretazione maschile. 

Italiani alla ribalta

Da sempre culla privilegiata di certo cinema italiano giovane e dissidente, anche quest’anno Locarno ha presentato alcuni nomi interessanti della nostra cinematografia, tra ruggenti opere prime, roboanti salti oltreoceano e prodotti concepiti e girati in piena pandemia. A colpire maggiormente è stato forse “Il Legionario”, esordio al lungometraggio dell’italo-bielorusso Gleb Papou (premio al miglior regista emergente) in una storia difficile e di attualità come lo sgombero di una casa occupata da immigrati illegali realizzata con un cast meraviglioso e un protagonista – Maurizio Bousso – che ha dimostrato di meritare certi riflettori. Ferdinando Cito Filomarino, altro under40 nostrano, ha portato invece in Piazza Grande “Beckett”, prodotto da Luca Guadagnino e con John David Washington coinvolto in una sorta di intrigo internazionale ad alta tensione tra i paesaggi greci: nessun spoiler, dal 14 Agosto è anche su Netflix. Ha provocato invece sorrisi e perplessità in egual misura “I Giganti” di Bonifacio Angus (anche attore), regalando risate supplementari solo ai nostalgici di Colorado Cafè per la presenza dei fratelli Manca, in un progetto girato in pieno Covid e ambientato in una sperduta casa sarda ritrovo di vecchi amici giunti all’apice della disperazione tra droghe, pistole, tormenti interiori e problemi irrisolti, specchi distorti del periodo che stiamo faticosamente cercando di lasciarci alle spalle.

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Donne in cerca di guai

Non è sfuggito il reiterato – e vincente – tentativo di proporre nelle diverse categorie storie forti di donne forti raccontate da donne dietro la cinepresa altrettanto coraggiose: dall’impressionante “Agia Emi” (premio menzione speciale “First Feature”) della greca Araceli Lemos su miracoli ed estremismi della comunità cattolica filippina ad Atene, ai night club russi rifugio e inferno per giovani ragazze nello sporco, freddo e onirico “Gerda” di Natalya Kudryashova (premiata come miglior attrice la splendida Anastasiya Krasovskaya), passando per “Actual People” e gli incompresi drammi legati ad ansia e relazioni della nuova generazione dell’americana Kit Zauhar (presente a Locarno) di titoli – e temi – ce n’erano per tutti i gusti, tra cui sottolineiamo il premio speciale della giuria Ciné+ “L'Été l'éternité” di Émilie Aussel e “La Place d’Une Autre” di Aurélia Georges, entrambi francesi, che hanno stupito per eleganza e introspezione in due struggenti coming of age ambientati rispettivamente al giorno d’oggi e ai primi del Novecento.

Est Europa in prima fila

Tra il Pardo d’Oro dei Cineasti del Presente assegnato a “Brotherhood” – inusuale racconto di formazione di tre fratelli pastori bosniaci mussulmani girato da un giovane e interessante regista italiano, Francesco Montagner –, le placide campagne polacche con “Bukolica” di Karol Pałka, le conversazioni con i passanti in strada raccolte dal proprio balcone di Varsavia dal regista Paweł Łoziński (gran premio della Giuria alla Semaine de la Critique), il potente dramma georgiano di Elene Naveriani “Wet Sand” premiato nella sezione Cineasti del Presente per la miglior interpretazione femminile di Gia Agumava e i film serbi già citati in precedenza, la presenza dell’Est Europa è stata inferiore solo a quella svizzera di casa, confermando la vitalità e l’eterogeneità di un cinema sempre originale e lucido nel narrare le singolari dinamiche delle proprie comunità.

Come si uccide una nuvola?

Sempre nella sezione della Settimana della Critica non poteva non andare al meraviglioso documentario “How To Kill a Cloud” il Premio Zonta Club Locarno per la promozione della giustizia e dell’etica sociale. Il film della regista finlandese Tuija Halttunen è riuscito nella piccola impresa di raccontare il cambiamento climatico miscelando con grazia del tutto femminile studi scientifici e poesia della Natura, seguendo le ricerche di una scienziata finlandese - Hannele Korhonen – vincitrice di una borsa di studio assegnata dagli Emirati Arabi Uniti destinata ad un solo, ambizioso obiettivo: creare un dispositivo capace di monitorare e far letteralmente piovere le sterili nuvole transitanti sopra al deserto di Abu Dhabi. Tra ovvi interrogativi etici, ostentazioni di ricchezza e possibilità precluse ai comuni mortali il film troverà spazio anche per dolci dialoghi con tramonti e nuvole rosa, alla ricerca di un equilibrio ancestrale forse smarrito per sempre.

Restauri e retrospettive

Parlava molto la lingua italiana la parte del festival dedicata alle proiezioni speciali e alla classica retrospettiva proposta in parallelo alle sezioni ufficiali: se i tanti film del grande Alberto Lattuada l’hanno fatta da padrone al cinema GranRex riservato agli omaggi che Locarno da sempre riserva ai più grandi del Cinema del passato, grande interesse ha suscitato il restauro della Cineteca del Friuli de “La Statua Vivente” di Camillo Mastrocinque, un’opera creduta perduta del 1943 del famoso regista romano considerata fondamentale per l’evoluzione del cinema neorealista. 

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