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Il Commediante On Demand presenta C'eravamo tanto amati di Ettore Scola

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Alessio Accardo

Riguardare il film di Scola non è soltanto immergersi in un film indimenticabile e unico ma è anche rivivere un pezzo di storia del nostro Paese per comprendere che siamo realmente noi italiani. Ci spiega tutto Alessio Accardo, alias il Commediante  

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VENT'ANNI SENZA VITTORIO GASSMAN

Il 29 giugno del 2000 si spegneva Vittorio Gassman, uno degli attori più straordinari della storia del cinema italiano, il mattatore per antonomasia.

SKY CINEMA COLLECTION - CLASSIC ne onora la memoria proponendo nel giorno del ventennale della sua scomparsa, a partire dalle 15.10, OMAGGIO A VITTORIO GASSMAN, un mini-ciclo di quattro suoi titoli imprescindibili: Il sorpasso di Dino Risi (1962), I mostri ancora di Risi (1963), Questi fantasmi di Renato Castellani (1968) e C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974).
 

Non basta. Su SKY ON DEMAND è disponibile, già dal 15 giugno, una collezione a lui dedicata e intitolata VENT'ANNI SENZA VITTORIO GASSMAN, nella quale ai titoli sopra menzionati si aggiungono Se permettete parliamo di donne di Ettore Scola (1964) e In nome del popolo italiano di Dino Risi (1971).

Last but not least: alle 21.15 del 29 giugno va in onda 100x100 Cinema - Omaggio A Vittorio Gassman, un talk show condotto da Francesco Castelnuovo con alcuni componenti della famiglia Gassmann* (i figli Alessandro e Paola, e il nipote Leo), autorevoli compagni di set (Gigi Proietti ed Enrico Montesano) e un attore emergente come Edoardo Pesce. Noi ci concentriamo su uno dei titoli più leggendari della sua filmografia: C’eravamo tanto amati. Talmente iconico da conservare il suo fascino inscalfibile a quasi 50 anni dalla sua uscita in sala, continuando a ispirare gli epigoni di quella gloriosa tradizione, come Gabriele Salvatores che vi allude nel suo quarto lungometraggio Turnè (1990), Paolo Virzì che lo cita esplicitamente in Tutta la vita davanti (2008) e Gabriele Muccino che ne ha fatto una sorta di remake pochi mesi fa: Gli anni più belli (2020).

LA GENESI INFINITA DI UN BILANCIO GENERAZIONALE

C’eravamo tanto amati narra le vicende tragicomiche di Gianni, Antonio e Nicola, tre partigiani divenuti amici durante la guerra di Liberazione dal nazifascismo; e attraverso le loro biografie, che si sviluppano intrecciandosi nel corso del tempo, ripercorre trent’anni di Storia d’Italia. Dal referendum Monarchia-Repubblica alle decisive elezioni politiche del 1948 (con conseguente estromissione di socialisti e comunisti dal governo); dalla speculazione edilizia del boom economico alle prime conquiste sociali e civili dei primi anni ’70.
 

Un viaggio nel tempo - come in fondo lo erano già stati Una vita difficile (1961) di Dino Risi, La rimpatriata (1963) di Damiano Damiani e Il padre di famiglia (1967) di Nanni Loy - in cui confluiscono motivi personali (il “privato”) e collettivi (il “politico”). Un film-testamentario col quale si traccia un bilancio dolce-amaro di un’intera generazione; quella che aveva patito le vessazioni del fascismo e combattuto nella Resistenza, che aveva partecipato alla ricostruzione e vissuto l’ebrezza effimera del boom economico. La generazione che ha fatto la commedia all’italiana e che adesso che gli anni più belli sono passati (per citare ancora Muccino), non sa far altro che guardarsi alle spalle, per capire quel tanto o quel poco di buono che è riuscita a combinare.

Non è un caso che gli autori del copione siano coloro che più di ogni altro la commedia all’italiana l’hanno scritta: oltre al regista, Scola, la coppia regina degli sceneggiatori del “genere”, Age-Scarpelli. Basti dire che il primo (prima di passare dietro alla macchina da presa) aveva scritto Il sorpasso e I mostri; e i secondi I soliti ignoti, La grande guerra e L’armata Brancaleone, soltanto per fare qualche titolo a mo’ d’esempio. I tre, ormai legati da un legame saldissimo - insieme avevano fino ad allora già sceneggiato due must come Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) e Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca (1970) – si mettono attorno a un tavolo ad almanaccare i ricordi di una vita, tra discussioni interminabili e litigi furibondi. Ed è così che prende corpo la storia di un professore di provincia (un cinefilo meridionale, a quanto pare ricalcato sul modello dello sceneggiatore Ugo Pirro), talmente innamorato del cinema neorealista, da abbandonare lavoro e famiglia per andare a Roma con l'obiettivo di conoscere il suo mito: Vittorio De Sica. Qui però, trovatolo vestito da sceriffo sul set di un film di serie z (pervia di uno dei tanti compromessi fatti dal regista di Ladri di bicilette nelle stagioni successive al neorealismo, soprattutto nella sua carriera d’attore), vinto dallo sdegno lo uccide.Quel plot rimane nella stesura definitiva della sceneggiatura, ma viene ridotto fino a occupare una sola delle tre storie che comporranno l’ordito del film. C’eravamo tanto amati è tutto questo e molto di più; a parere dello storico Enrico Giacovelli quel capolavoro assoluto sarebbe anche il primo canto del cigno della commedia all’italiana. Il secondo e definitivo sarà La terrazza, scritto dallo stesso trio di autori: un altro, l’ultimo, epicedio di un genere al tramonto, ancora a cavallo tra cinema e vita.

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NEL NOME DI VITTORIO DE SICA 

Il fantasma di Vittorio De Sica - da cui, come abbiamo visto, tutto ebbe inizio - attraversa l’intera pellicola di Scola.Anzitutto nelle ossessioni cinefile del personaggio sopra descritto, che nel film si chiamerà Nicola Palumbo. Il quale sarà licenziato dal Liceo di Nocera Inferiore dove insegna per aver difeso, dalle tesi bigotte e retrograde del notabilato locale, il cinema neorealista; durante un cineforum in cui viene proiettato il suo film preferito: Ladri di biciclette, di cui si vedono le vere immagini della struggente scena del finale. Tema su cui, nel prosieguo del film, Palumbo arriverà persino a candidarsi al programma più cult della tv italiana dei tempi, “Lascia o raddoppia” di Mike Bongiorno.

Ancora: in una delle sequenze finali del film ritroviamo Nicola mentre partecipa – fittiziamente - a un vero incontro pubblico con Vittorio De Sica (ritratto in immagini di repertorio in cui l’ormai anziano maestro viene premiato e intervistato da Ugo Gregoretti), durante il quale rivela il trucco che aveva utilizzato durante le riprese di Ladri di biciclette per far piangere il piccolo protagonista durante la scena dell'arresto del padre, e che aveva costituito il motivo, ingiusto, dell’ esclusione del professor Palumbo dal quiz televisivo. Ormai settantatreenne, De Sica scompare durante la fase di post-produzione di C’eravamo tanto amati, e gli autori decidono di dedicargli il film, con una sacrosanta didascalia finale.

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UN FILM METALINGUISTA. OMAGGI MOLTEPLICI (AL CINEMA E NON SOLO)

Si è già scritto che C’eravamo tanto amati - in ragione della sua originale drammaturgia diacronica - è un affettuoso spaccato emozionale di trent’anni di Storia d’Italia. Ma non basta: grazie ai molteplici riferimenti cinematografici con i quali gli autori scandiscono l’inesorabile succedersi delle stagioni, il capolavoro di Scola è anche uno straordinario atto d’amore nei confronti della “settima arte”.

Vediamoli questi riferimenti. Una scena chiave per gli sviluppi drammaturgici della vicenda si svolge accanto alla Fontana di Trevi proprio mentre i veri Marcello Mastroianni e Federico Fellini stanno girando la celeberrima scena-cult con Anita Ekberg (qui è una controfigura) de La dolce vita (1960).

Per rappresentare l’incomunicabilità coniugale tra Gianni Perego (il personaggio di Gassman) ed Elide (Giovanna Ralli), viene omaggiato il cinema di Michelangelo Antonioni, di cui si mostrano alcune evocative fotografie tratte da L’eclisse (1962), con Monica Vitti e Alain Delon.

Vengono poi incidentalmente citati L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais e il cinema di Luigi Zampa. Inoltre, grazie a un uso umoristico della tecnica dellamise en abyme”, viene proiettato Schiavo d’amore (1964), melodrammone “made in England” con Kim Novak e Laurence Harvey, qui però ridoppiati ironicamente dai personaggi di Nino Manfredi (Antonio) e Stefania Sandrelli (Luciana).

Per tacere dell’indimenticabile sequenza della scalinata de La corazzata Potëmkin di Sergej M. Ėjzenštejn, riprodotta artigianalmente da Nicola sulla scalinata di Trinità de’ Monti; e che anticipa di un paio d’anni la citazione farsesca di Paolo Villaggio e Luciano Salce ne Il secondo tragico Fantozzi (1976).

Dulcis in fundo, a testimoniare dell’anima integralmente meta-cinematografica di quest’opera (molto più complessa di quanto non si possa credere a tutta prima), c’è la presenza in carne e ossa di Isa Barzizza, ex diva del teatro di rivista d’antan nonché attrice di molto cinema comico degli anni ’50, soprattutto quello di Toto; che qui interpreta la proprietaria della pensione in cui trova alloggio la Luciana della Sandrelli, in una delle scene più drammatiche del film.

Ma non di solo cinema si nutre il copione di Age, Scarpelli e Scola. C’è anche il teatro, in particolare Strano interludio di Eugene O’Neill, che con abile maestria viene fatto debordare dalla drammaturgia della pièce per contaminare quella del film. E c’è la tv, con l’ingresso sul grande schermo di uno dei programmi più leggendari del piccolo schermo: “Lascia o raddoppia?” Di Mike Bongiorno, pure lui presente nel film e nei credits nel ruolo di sé stesso.

E ancora, inevitabilmente (data la formazione libresca degli sceneggiatori), la letteratura con citazioni puntuali e quasi sempre ironiche da I tre moschettieri di Alexandre Dumas a Furore di John Steinbeck. Da Françoise Sagan a Flora Volpini. Passando per il Siddhartha di Hermann Hesse. Infine le canzoni: oltre a quella, bellissima, composta per la colonna sonora da Armando Trovajoli (E io ero Sandokan), anche quella che fornisce il titolo al film: Come pioveva di Armando Gill, cantata negli anni ’20 da Vittorio De Sica. Col che davvero tutto torna, e il cerchio si chiude.

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LE INVENZIONI CINEMATOGRAFICHE DI ETTORE SCOLA

Considerato a lungo poco più di un buon sceneggiatore prestato alla regia, per quanto sinora scritto, Ettore Scola fornisce qui - a chi ancora non se ne fosse reso conto - la dimostrazione di possedere alcune non irrilevanti benemerenze squisitamente cinematografiche. Autentiche invenzioni registiche di cui il cineasta nato a Trevico aveva già dato sfoggio pochi anni addietro, ai tempi del succitato Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca, quando grazie a delle soluzioni linguistiche “stranianti accadeva che i personaggi uscissero momentaneamente dal proprio ruolo e, guardando dritto in camera, si trasformassero nei narratori della vicenda di cui essi stessi erano protagonisti, esprimendo i propri pensieri ad alta voce come in una sorta di monologo interiore di stampo teatrale.

In C’eravamo tanto amati, quegli sperimentalismi vengono portati all’estremo, con l’adozione di stilemi tipici della nouvelle vague francese e più in generale del cinema d'autore di quel periodo.

Anzitutto l’espediente del racconto in flashback, adottato in quello stesso 1974 da Mario Monicelli in Romanzo popolare (scritto non a caso da Age e Scarpelli), grazie al quale la drammaturgia del film assume una struttura circolare, iniziando e finendo con la stessa scena.

Quindi il già riferito prestito dal teatro di Eugene O’Neill: dopo aver assistito alla rappresentazione di Strano interludio, Antonio e Luciana ne assimilano gli codici stilistici da teatro d’avanguardia, trasferendoli nel plot del film in una scena dai risvolti romanticamente pregnanti. Ogni volta che prendono la parola, i due rimangono bloccati in souplesse - esattamente come poco prima era accaduto agli attori sul palcoscenico - venendo illuminati da un irrealistico fascio di luce, proiettato da un inesistente occhio di bue.

L’espediente finisce per tracimare nel resto del film, spesso sganciato dal pretesto teatrale, e determinando una serie di interpellazioni” in macchina da presa dei personaggi che, come se niente fosse, interrompono l'azione per rivolgersi direttamente al pubblico, creando così uno scarto metalinguistico piuttosto audace per il “cinema medio” di cui ci stiamo occupando.

Resta da rilevare l’ultima invenzione di un film che - come si vede - ne ha a bizzeffe. La pellicola, che come si sta ribadendo a ogni piè sospinto è soprattutto la narrazione del trascorrere del tempo, replica questo concetto anche sul piano figurativo: è infatti nettamente divisa in due parti, la prima (che corrisponde grosso modo al periodo 1943-1958) è girata in bianco e nero, mentre la seconda (1958-1973), è invece tutta a colori.

È interessante notare che questo trapasso cromatico\cronologico è reso grazie a un prolungato dolly che inquadra un “madonnaro” intento a raffigurare un’immagine sacra sull’asfalto di una piazza romana. Quel “madonnaro” è interpretato da Luciano Ricceri, scenografo e costumista del film, che ha stabilito con Scola un lungo e fertile sodalizio.

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UN CAST IN STATO DI GRAZIA 

Ma tutto ciò sarebbe stato poco utile se il film non fosse stato servito da un cast in stato di grazia, di cui in parte abbiamo già detto.

Iniziamo col protagonista del nostro omaggio. Vittorio Gassman interpreta uno dei personaggi più odiosi della sua carriera: una sorta di voltagabbana degli ideali e dei sentimenti. Già eroe della Resistenza diverrà in breve il galoppino di un becero palazzinaro romano (interpretato magistralmente da Aldo Fabrizi), di cui finirà per sposare la figlia. Essendo connotato come un personaggio del nord (si fa riferimento a uno zio di Pavia), questo Gianni Perego non sarà dopotutto troppo diverso dagli altri personaggi che lo hanno immortalato nella galleria dei miti della commedia all’italiana (nell’ordine: Peppe “Er pantera” de I soliti ignoti, Giovanni Busacca de La grande guerra e Brancaleone da Norcia de L’armata Brancaleone), tutti quanti alteri ma inaffidabili, corpulenti e sbruffoni, rodomonteschi e fanfaroni.

Quindi Nino Manfredi, che è per converso l’eroe positivo della vicenda, in cui gli autori travasano in tutta evidenza le proprie simpatie. Portantino comunista fedele alla linea del partito e dei legami affettivi, è divenuto immortale nella memoria di ogni cinefilo grazie ai virtuosismi recitativi e alla paciosa bonomia dell’attore ciociaro, che dà il qui il suo meglio in uno dei migliori ruoli della sua carriera.

A completare il trio d’amici, c’è il Nicola Palumbo di Stefano Satta Flores, un eccellente attore prematuramente scomparso, che rifarà praticamente lo stesso personaggio (solo con qualche nevrosi in più) in un successivo film di Scola, ancora La terrazza. A quanto pare il prof. Palumbo era stato inizialmente concepito per Adriano Celentano e poi via via rifiutato da Lino Ventura, Alberto Sordi e Marcello Mastroianni.

La protagonista femminile, Stefania Sandrelli, interpreta Luciana Zanon, aspirante attrice a cui gli autori mettono in bocca un buffo dialetto friulano (“son di Trasaghis, vicino Peonis”, dice con vocina flautata a Fellini che le domanda la provenienza); una donna fragile e sensuale, che amerà a turno tutti e tre gli amici. È facile immaginare che per tratteggiare questo personaggio, Ettore Scola abbia rivangato nella sua memoria di giovane sceneggiatore, quando aveva scritto per Antonio Pietrangeli il ruolo della consacrazione della Sandrelli, quello di Adriana Astarelli nel film Io la conoscevo bene (1965). Sono infatti entrambe ragazze di provincia in cerca di successo nell'ambiente del cinema capitolino, che alla fine ripiegheranno su un lavoro da maschera in una sala cinematografica.

Da segnalare che il ruolo della moglie del personaggio di Aldo Fabrizi, Romolo Catenacci, lo interpreta la vera sorella del comico romano, Elena Fabrizi, meglio nota come Sora Lella; la quale di lì a qualche anno conoscerà un’insperata notorietà, grazie alle sue fondamentali comparizioni nei film di Carlo Verdone.

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LA CONSACRAZIONE A POSTERIORI DEL REGISTA DI UN CULT-MOVIE

Oltre al gradimento del pubblico, che per la verità dura ancora oggi, C’eravamo tanto amati si aggiudica un sacco di premi: il Gran Premio al Festival cinematografico internazionale di Mosca, un César (gli Oscar francesi) per il miglior film straniero, tre Nastri d'argento andati ad Aldo Fabrizi, Giovanna Ralli e ai tre sceneggiatori; e due Globi d’oro, uno per Stefano Satta Flores e l’altro per Vittorio Gassman.

E dopo i premi giunge di conseguenza la fama internazionale, e immancabilmente anche la considerazione degli addetti ai lavori, che da allora iniziano a riconoscergli i suoi meriti indiscutibili. Persino gli austeri critici cinematografici dell’epoca (ammalati di ideologia e di contenutismo), che sino ad allora gli avevano riservato le consuete feroci stroncature, ostinandosi a ignorare certe arditezze stilistiche che in un cinema dichiaratamente “medio” e “popolare” non erano affatto scontate, si cominciano a ricredere. Quegli incrollabili custodi della purezza del neorealismo, i quali dovettero attendere che la scoprissero i francesi della rivista “Positif” e simili, per riscoprire la commedia all’italiana, da noi fino ad allora quasi sempre bistrattata.

Oggi C’eravamo tanto amati è quasi unanimemente considerato un capolavoro del cinema italiano, ed è stato inserito nella lista dei 100 film che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978.

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