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Gli uomini d’oro, i “soliti ignoti” colpiscono ancora!

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Alessio Accardo

Fabio De Luigi, Edoardo Leo e Giampaolo Morelli in un noir metropolitano, ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto.  L’appuntamento in prima tv è per lunedì 25 maggio alle 21.15 su Sky Cinema Uno

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Torino, 1996. Luigi, autista del furgone portavalori delle Poste, è prossimo alla pensione e sogna di andare in Costa Rica ad aprire un chiringuito. Il sogno è infranto dal ministro Dini che alza l’età pensionabile di 10 anni. Insieme ad Alvise e all’ex pugile Nicola, Luigi decide di rapinare l'ufficio postale, impossessandosi dei valori che trasporta per mestiere. È Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri, il lunedì première del 25 maggio alle 21.15 su Sky Cinema Uno.

Un format immarcescibile

Nel 1958 Mario Monicelli, sfruttando uno dei set de Le notti bianche di Luchino Visconti (quello del quartiere Venezia di Livorno, ricostruito a Cinecittà), realizza per il produttore Franco Cristaldi, quasi per gioco, un film che avrebbe rivoluzionato la storia del cinema italiano, dando la stura alla cosiddetta commedia all'italiana: I soliti ignoti.
 

Senza saperlo il regista viareggino crea un format vincente che è stato replicato a tutte le latitudini. Ha cominciato Nanni Loy nel 1959 girandone un sequel in piena regola, Audace colpo dei soliti ignoti. Prosegue Amanzio Todini, che nel 1985 realizza il non indimenticabile I soliti ignoti vent'annidopo, mentre l’anno precedente era uscito a Hollywood Crackers del francese Louis Malle, con Donald Sutherland e Sean Penn. Persino Woody Allen nel 2000 ne fa un remake, a modo suo, Criminali da strapazzo, con Elaine May. Infine Welcome to Collinwood, nel 2002, con George Clooney nei panni che furono di Totò (!) e i registi dei due Avengers, Anthony e Joe Russo (!), dietro la macchina da presa. Oggi tocca a Vincenzo Alfieri tentare l’impresa di fondere comico e crime-story, noir e heist-movie, per narrare l’intramontabile vicenda di un gruppo di disperati mal assortiti che tenta un’impresa mostruosamente più grande delle proprie possibilità, con Gli uomini d’oro, uscito in sala nel 2019 e da lunedì 25 maggio in prima visione tv sugli schermi di Sky Cinema.

Tratto, e ritratto, da una storia vera

L’incredibile storia narrata da Alfieri - che per girare il suo secondo lungometraggio dopo I peggiori si fa aiutare da una squadra di sceneggiatori in cui spicca il regista di Orecchie e Io c’è Alessandro Aronadio - è il libero adattamento di una vicenda realmente accaduta: la rapina ad un furgone portavalori avvenuta nel torinese nel 1996. La vicenda colpì molto l’opinione pubblica e i media. In particolare, l’esperto di cronaca nera del quotidiano La Repubblica, Meo Ponte, nel concludere il suo pezzo sentenziò così: "Se facessero un film tratto da questa vicenda, comincerebbe come I soliti ignoti di Mario Monicelli e finirebbe come Le iene di Quentin Tarantino". Non solo, lo scrittore piemontese Bruno Gambarotta qualche anno dopo ci scrisse persino un libro Il colpo degli uomini d'oro. Il furto del secolo alle Poste di Torino. Finché nel 2000 un altro torinese famoso, il regista Gianluca Maria Tavarelli, non decise che fosse arrivato il momento di girarci un film: Qui non è il paradiso, con Fabrizio Gifuni e Valerio Binasco. Una storia vista e rivista, dunque, già sentita e raccontata. Eppure il film di Alfieri è tutt’altro che risaputo, per approccio registico e cifra stilistica.

Dove risiede la novità de Gli uomini d’oro? Essenzialmente proprio in quella fulminante battuta del cronista di Repubblica, che il regista campano prende proprio alla lettera, a cominciare dalla drammaturgia del copione, che pur restando immerso nella temperie nostrana della Torino degli anni ’90 (che non è più la plumbea città operaia di dieci anni prima, ma ancora la città più sudista del nord, coi suoi “terroni settentrionali”) non disdegna le contaminazioni di tanto cinema d’oltreoceano e non solo. Il film è infatti diviso in tre atti, che identificano i tre diversi punti di vista con cui la stessa vicenda è vissuta dai tre protagonisti principali (il playboy, il cacciatore e il lupo), in un modo che rimanda proprio al cinema di Tarantino, da Le iene a Pulp fiction e non solo. Ma che trova degli esempi magnifici anche nel Rashomon di Akira Kurosawa e in Rapina a mano armata di Stanley Kubrick.

L’Alfieri’s touch: uno sguardo glocal

Ma non si tratta dei soli azzardi con cui si cimenta il giovane regista, già attore con Pupi Avati, Fausto Brizzi, Giovanni Veronesi e la coppia Genovese-Miniero. Pur tenendo ben piantata la sua vicenda all’ombra della Mole e delle passioni di casa nostra (si veda l’insistenza con cui utilizza il gioco del calcio come originale fil rouge narrativo), Alfieri da sfoggio di una serie di arditezze registiche che, sebbene siano in parte derivative, non sono per nulla da trascurare in un cinema italiano che troppo spesso sembra accontentarsi della reiterazione del dejà vu.

Nel contesto di certe soluzioni visive non scontate, è soprattutto il montaggio ipercinetico e rapsodico che colpisce (montaggio – si badi bene - curato dallo stesso regista, oltre al soggetto e alla sceneggiatura!); frammentato, scomposto e ricomposto secondo dinamiche narrative atemporali. Un editing che fa immediatamente pensare al talentuoso regista inglese Guy Ritchie, che prima di impelagarsi nelle note vicende amorose con l’ex Miss Ciccone, ci aveva regalato gemme come Lock & Stock - Pazzi scatenati e Snatch - Lo strappo.

Oppure ad un altro regista nato a Salerno negli anni ’80 (!), quel Sydney Sibilia che con la trilogia di Smetto quando voglio ha provato, spesso riuscendoci, a gettare un sasso nelle morte gore del cinema italiano “due camere e cucina”.

Sin dalla sigla di testa, ambientata in una discoteca anni ’90 illuminata da luci fluo e dal rifrangere di certi dorati tubini glittering (indossato come una seconda pelle da una Matilde Gioli qui particolarmente sexy), lo sguardo di Alfieri cerca in tutti i modi di portarci lontano da qui.
 

Il suo racconto cinematografico seguita con insolite angolazioni sghembe e sguardi in macchina che saturano la durata dell’inquadratura in modo innaturale. Con giocosi colori pastello che fanno il paio con la giocosità di un dramma che non fa mai davvero male e totali ripresi in panoramica dalle colline che circondano una citta ancora plumbea ma già proiettata verso il 2000 come la Torino di trent’anni fa. E ancora: doppie carrellate in plongée e un iridescente time-lapse della Mole antonelliana annegata nel fluido dorato delle luminarie del capoluogo piemontese.

Infine la musica, mai casuale, come la trance underground della techno dei rave party che proliferavano in quel decennio, impreziosita da chicche pop-rock come Lullaby dei Cure e Alive and kicking dei Simple Minds, o dei must stile-dance, come Rhythm Is A Dancer di Snap! e Sweet Harmony dei Man Without Country.

Un cast crossover

Se è dunque un crossover stilistico il film di Alfieri, lo è in qualche modo anche il cast, allestito in modo davvero assai originale, per non dire bizzarro.

Il playboy è il solo, unico, vero, autentico playboy del cinema italiano del momento: Giampaolo Morelli, che sembra attraversare un autentico stato di grazia, avendo appena esordito dietro alla macchina da presa nel divertente 7 ore per farti innamorare.
 

Nel ruolo del cacciatore c’è la vera scommessa del film: un Fabio De Luigi mai così serio e torvo. L’attore nato a Santarcangelo di Romagna si cimenta qui per la prima volta in un ruolo drammatico, tratteggiando il profilo di un torinese grigio, cupo e rancoroso. E pure un po’ razzista. Un cacciatore, carico di una rabbia implosa che sfoga sparando la domenica nei boschi. Protagonista di una vita triste, fatta di piccoli risparmi e compleanni della figlia novenne festeggiati nel tinello di famiglia. Tra doppi lavori, doppi giochi e ménage domestici all’insegna di uno squallore irredimibile.

Il lupo è Edoardo Leo che, pur parlando un dialetto piemontese un po’ improbabile (come però, dopo tutto, potrebbero parlare certi figli di immigrati), riesce a dare corpo e anima a un drop-out di periferia, ieri dedito al pugilato e oggi a tirare a campare insieme a una cubista sudamericana che egli parrebbe amare di vero amore.

Insomma forse, come ha scritto qualcuno, non tutto funziona alla perfezione nel film di Alfieri: qualche character è forse messo poco a fuoco oppure, al contrario, è illuminato a dismisura; certi snodi della trama crime probabilmente non sono calibratissimi; il lavoro di dialogue-coaching poteva essere in definitiva più scrupoloso. Forse.

Eppure, noi ne vorremmo 10, 100, 1000 di registi come Alfieri il quale, pur di ampliare i confini di una cinematografia come la nostra che troppo spesso sembra accontentarsi di ripetere i cliché più consunti, decide di osare, con una bella dose di incoscienza e di audacia. Che, come è noto, è quasi sempre ripagata dalla fortuna.