Paolo Zucca, l’intervista al regista del film “L’uomo che comprò la luna”

Cinema

Mattia Ferrarini

Sabato 20 luglio, alle 21.15, arriva su Sky Cinema Due L’uomo che comprò la Luna, un film di Paolo Zucca. La “commedia stralunata” è stata presentata alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Roma, e distribuita successivamente nelle sale cinematografiche. Ecco la nostra intervista al regista del film.

L’uomo che comprò la Luna vede una coppia di agenti segreti italiani (interpretati da Stefano Fresi e Francesco Pannofino) ricevere una soffiata dagli Stati Uniti: pare che qualcuno, in Sardegna, sia diventato proprietario della Luna. I due agenti reclutano dunque un soldato (Jacopo Cullin) che, dietro il falso nome di Kevin Pirelli e un marcato accento milanese, nasconde la propria identità sarda. Il protagonista viene sottoposto a un duro allenamento, per poter intraprendere l’importante missione e scopriere chi ha comprato la Luna.

Iniziamo parlando del viaggio che il protagonista compie: va alla ricerca di una tradizione perduta. C’è forse bisogno di una maggiore riappropriazione della propria identità culturale?

Secondo me il tema dichiarato del film è l’identità, e racconta soprattutto il viaggio, oltre che geografico, interiore verso la riappropriazione di un’identità, che nel film è quella sarda. Tuttavia, ho la conferma del fatto che venga recepito da tutti che questo bisogno di identità è universale, e che non è limitato all’identità sarda raccontata nel film: narra il bisogno di un’identità, e ciascuno dovrebbe trovare la sua.

Come scandiresti il viaggio interiore del protagonista?

Il viaggio del protagonista avviene in tre fasi. La prima è la negazione assoluta, infatti parla con un accento milanese, ha i capelli biondi, è un rinnegato assoluto. La definirei “fase dell’antitesi”. Poi lui fa un allenamento “alla Karate Kid”, con un maestro che lo allena a diventare il prototipo del vero sardo e abbiamo una fase dell’appropriazione non critica dell’identità, tanto che si trasforma quasi in una maschera: mette il cappello, il fucile, e il gambale. In qualche modo è come se si mettesse una corazza, cammina in modo robotico ed è un’appropriazione esagerata di un’identità ostentata. Poi c’è la terza fase, quando incontra il pescatore e ci inoltriamo in atmosfere più poetiche e notturne, in cui l’identità si configura non come una corazza, ma come un valore più profondo di cui riappropriarsi. Questa fase vede un personaggio che capisce che l’identità ha radici profonde. Sono queste le tre fasi molto chiare che l’attore ha interpretato con grande precisione, impersonandole in modo netto: antitesi, tesi e sintesi finale.

E quindi, Kevin, il protagonista, si vergognava in qualche modo delle sue origini? Lui nascondeva la sua identità attraverso un nome fasullo.

Lui rinnega le sue origini e cambia cognome, ma c’è una motivazione generale e culturale, che è quella del complesso di inferiorità di tanti meridionali e immigrati, che cercano l’omologazione nel paese in cui si sono trasferiti. Lui è il prototipo del sardo o del meridionale che ha un complesso di inferiorità. Poi c’è il suo contrario, il maestro che lo allena, che ha un estremo complesso di superiorità. Alla fine la bilancia viene riportata allo zero.

Quindi, secondo te, il riappropriarsi di un ‘identità è un’esigenza?

Io credo che sia un guadagno. Non c’è niente da perdere a parlare una lingua in più, a conoscere più della propria storia, ma c’è solo da guadagnare. Poi è chiaro che non basta, ripeto, indossare una maschera identitaria per aver risolto ogni tipo di problema nella vita. Sono convinto che sia sempre un di più, che un di meno.

Quali metafore si nascondono dietro le scelte narrative?

A livello metaforico il film è, in qualche modo, la storia di una contrapposizione politica e culturale tra il poeta che si appropria della luna in quanto poeta (quindi l’umanista fortemente radicato in un luogo  e in un contesto culturale) contro i sommergibili, che rappresentano l’arroganza militare e culturale che nel film è incarnata dagli Stati Uniti. L’idea di “local” contro quella di “global” viene rappresentata metaforicamente da questa lotta per il possesso della Luna, che diventa un oggetto allegorico.

Le tradizioni sarde vengono rappresentate in maniera stereotipata. C’è stata la volontà di caricare questa rappresentazione?

Sì, assolutamente. Quello che anticipo sempre al pubblico è che questo è un film sui luoghi comuni, non ho la pretesa di rappresentare la sardità così com’è. Attraverso l’esagerazione dei luoghi comuni, caricando l’identità culturale, si cerca di superare con una risata anche questo complesso. Tant’è che ho dovuto affrontarli tutti anche in modo enciclopedico, contemplando anche quelli che a noi fanno più arrabbiare, come le famose barzellette sui pastori a sfondo sessuale. Non c’è niente di più offensivo per un sardo, ma era mia intenzione sfatare questi luoghi comuni affrontandoli anche in modo esagerato. Questo però per due terzi del film, perché subito è una commedia dissacrante in cui la caricatura è abbastanza calcata ma, da un certo punto in poi, precisamente quando il film si avvia verso le sue atmosfere più notturne, questa commedia dissacrante si trasforma in modo chiaro e volutamente brusco in un inno consacrante di quei valori di cui parlavo prima. La dissacrazione arriva fino a un certo punto del film. Quindi, questo è uno dei motivi per cui io e gli attori siamo ancora vivi e continuiamo a circolare!

Da un punto di vista stilistico, invece, come commenti le tue scelte?

La messa in scena dell’inquadratura è bilanciata, precisa, e proviene da un mio punto fotografico personale. La caratteristica stilistica principale di questo film è la stessa che lo accumuna al mio primo film, L’arbitro: faccio dei cambi molto bruschi di tono, da una scena all’altra, passando dal comico al tragico, dal tragico al grottesco, per poi virare verso atmosfere più epiche, che poi giocano coi diversi generi. Troviamo il western, una scena nel bosco quasi horror, e momenti drammatici. Questi ultimi li troviamo nella scena in cui viene ucciso il coprotagonista o quando lo stesso personaggio racconta di aver ucciso un bambino. Ecco, questo melting pot di diversi toni fa parte di una mia ricerca che porto avanti da qualche anno. L’ho fatto nel primo e nel secondo film, e sono convinto che anche nel mio terzo film continuerò a spiazzare il pubblico con queste brusche virate improvvise da un tono all’altro. E questa credo che sia una mia intuizione, la mia principale caratteristica stilistica.

Ti sei ispirato a qualche modello per queste scelte?

Sì: lo dico con tutta la distanza del caso tra me e il modello, ma il mio modello è Shakespeare, non la commedia all’italiana, per cui si ride e si piange insieme. Nei miei film è un po’ come in Shakespeare, ci sono scene molto leggere e comiche ma, improvvisamente, senza alcuna preparazione, arriva una mazzata tragica.

Da dove deriva, invece, il tuo gusto per le inquadrature molto composte ed equilibrate?

L’inquadratura composta è un mio personale gusto per la composizione fotografica e pittorica e questa è una cosa che faccio in modo naturale. Se c’è qualcosa fuori posto nell’inquadratura fermo tutta la macchina anche per due ore, seppure si tratti di piccoli dettagli come una bottiglia fuori posto. È una cosa innata, non conscia, cerco sempre un’armonia compositiva nelle inquadrature.

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