Il cinema che non conosci si propone di aiutare a far scoprire quei film “minori” che, per budget o per scelte tematiche, rimangono un po’ nell’ombra mentre meriterebbero di avere spinte promozionali più significative e impulso distributivo più ampio e convinto. Come Il dubbio- Un caso di coscienza di Vahid Jalilvand, in questi giorni al Cinemino di Milano. A seguire la recensione del film.
Kaveh Nariman è il protagonista de Il dubbio - Un caso di coscienza e con questo concetto va a toccare le nostre coscienze: il piccolo Amir Ali sarebbe morto comunque. O forse no. Magari sarebbe sopravvissuto qualche giorno in più. E ci sarebbe stato il tempo di curarlo. O forse sarebbe stata solo altra sofferenza da aggiungere al malessere che lo affliggeva già da giorni. Che disgraziato quel venditore di polli morti…e ora è sottoterra proprio come Amir Ali. Il padre l’ha ammazzato in un momento di rabbia. Di dolore. Straziato nel corpo senza anima che si ritrova. L’anima che ha seppellito sotto due metri di terra insieme alla sua vita, al suo bambino. E adesso deve passare la vita in carcere per chi gliel’ha strappato a causa di un maledetto pezzo di carne avariata. Tre vite per una. Senza contare la moglie e la figlioletta piccola. Che futuro possono avere? E io, che sono un medico, non ho saputo agire subito. Riesumare un corpo per zittire la mia coscienza. Quando tutto era già stato fatto. A chi ha giovato? Una madre che immagina il figlio morto da giorni di nuovo su un letto dell’obitorio, destato dall’aldilà con quel corpicino ormai ridotto a ossa…che strazio! Per cosa? Per lavarmi la coscienza? Cos’ho fatto di concreto?
Può essere di questo genere il ragionamento che ha portato il medico Kaveh Nariman a confessare le sue responsabilità nel corso dell’ultima scena, quella del processo? Punto conclusivo di una vicenda iniziata la notte dell’incidente. Dopo aver investito con l’auto madre, padre e due figlioletti che, aggrappati a un motorino, stavano tornando a casa. Avevano trascorso la serata fuori casa, la prima dopo anni di stenti e sacrifici. Dopo l’urto il medico aveva constatato che il più grandicello, Amir Ali, in fondo non si era fatto nulla. Senonché ritrovarselo, cadavere, il giorno dopo in obitorio. E dopo essersi fatto venire il dubbio che, il botulino diagnosticato con l’autopsia, non fosse la reale causa della morte, perché quel mal di testa accusato la notte dell’incidente avrebbe potuto essere il sintomo di uno spostamento delle vertebre. Spesso silente, molto spesso fatale.
Questo è il dubbio di Kaveh che attraversa tutto il film. Il dubbio che non lo fa dormire e che decide di risolvere per una questione di coscienza. Una questione personale, ma che appartiene comunque a una dimensione di giustizia sociale. L’altro dubbio, invece, quello di sacrificarsi per salvare una famiglia già messa in croce dal destino, lo risolve in fretta. Così in fretta che la decisione finale ci è mostrata quando già, nel corso del processo, si colgono le conseguenze che ne derivano. Il dottore non ha dubbi sul da farsi. È facile quindi comprendere il suo dubbio iniziale, il suo temporeggiare che rientra in quelle dinamiche di conflitto interiore possibili solo nell’animo di un uomo capace di riflessione e di capacità di giudizio. Per questo la complessità del film proposto dal regista Vahid Jalilvand in programmazione al Cinemino di Milano offre un valore aggiunto che ne accresce l’interesse.