Venezia 2016: Robinù di Michele Santoro - La recensione

Cinema
Un'immagine tratta dal film Robinù di Michele Santoro
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Il giornalista televisivo approda  alla Mostra del cinema di Venezia con il documentario Robinù che ha ideato e diretto, presentato nella nuova sezione non competitiva "Cinema nel Giardino"

di Alessio Accardo

Michele Santoro, giornalista e autore tv che daSamarcanda a Servizio pubblico ha raccontato da quasi 30 anni le piaghe e le ipocrisie del nostro Paese, torna dopo La mafia è bianca a girare un documentario di inchiesta, che approda al “Cinema nel giardino” della Mostra di Venezia e che a ottobre uscirà nelle sale cinematografiche. E’ Robinù, documentario che racconta senza mediazioni e senza censure i baby boss della camorra.
 

Un viaggio appassionato e disperato nei bassi napoletani e nelle galere, tra delinquenti ragazzini armati di kalashnikov; che grazie alla prossimità fisica e all’empatia morale con cui avvicina i membri di questo popolo di reietti - senza mai cedere alla facile tentazione di giudicarli - realizza un ritratto al contempo struggente e scandaloso.
 

Il titolo del film prende spunto dal racconto di un padre, il quale per quanto rammaricato per la sorte del giovane figlio detenuto, arriva per l’appunto a paragonarlo a Robin Hood: “Faceva del bene alle famiglie del quartiere, aiutava le persone deboli. Era come Robin Hood. Se ha ucciso ha sbagliato, ma lo ha fatto solo perché esigeva rispetto.” Una storia che sembra quasi ricalcare il Padrino di Francis Ford Coppola, benefattore delle famiglie di Little Italy. Se non ché questa è la realtà; una realtà che il film indaga pedinandola inesorabilmente, tra le agghiaccianti testimonianze di chi ha commesso il primo reato a 13 anni, le ragazze madri che spiegano candidamente come si spaccia la cocaina, e i cantanti neomelodici che dedicano le loro canzoni ai detenuti agli arresti domiciliari.
 

Tra la fatalistica consapevolezza di chi sa già che la galera finirà per renderlo solo  un criminale più incallito e la sfrontatezza di chi professa, a testa alta, che i suoi obiettive sono soldi, femmine e potere, e lo strumento per realizzarli è la malavita.

Un mondo a noi così vicino eppure lontanissimo, pressoché sconosciuto, nel quale i figli si fanno a 15 anni e a 30 si diventa già nonni. Un mondo di freaks adolescenti che parlano solo in dialetto, perché a scuola non ci sono mai andati; e lo Stato – questo ci ha spiegato il giornalista-regista – non fa molto per recuperarli.
 

Di giovani vite perdute che trascorrono le proprie giovinezze in galera, cullando il sogno assurdo di poter uscire per poter ricominciare a fumare marijuana. Un microcosmo aberrante in cui la massima offesa è la parola “pentito” e la virtù più nobile l’omertà.

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