Paolo Kessisoglu: “Scrivevo lettere d'amore, lo faceva pure mio padre”

Dall’incontro con Luca Bizzarri e la fondazione dei Cavalli Marci all’impegno con l’associazione C’è da fare. È un Paolo Kessisoglu a ruota libera quello che è stato ospite di Stories, il ciclo di interviste ai personaggi dello spettacolo di Sky TG24. Un viaggio che parte dall’infanzia, dalla casa, e si dipana tra i ricordi di affetti familiari che non ci sono più, aneddoti divertenti dai set televisivi e cinematografici, il rapporto con la città di Genova e quello con le origini armene. Partiamo dall’inizio: casa Kessisoglu, dove siamo? Chi c'era, dov'era? Siamo a Genova, famiglia piccolo borghese di commercianti, mamma casalinga, una sorella di due anni e mezzo più grande, il mio contrario: brava a scuola, pacata, carina invece io ero molto vivace, poco studioso. Sono un casinaro, una volta ho dato fuoco alla tenda di camera mia come esperimento sociale: guardavo “Dinasty” e c'erano queste scene con persone di grande disponibilità economica che leggevano le lettere di non so chi poi le buttavano nel camino. E io ho fatto la stessa cosa: ho preso una lettera, le ho dato fuoco, l'ho buttata e sono uscito dalla camera senza farmi domande. A un certo punto ho sentito mia mamma che urlava: “Chi ha dato fuoco alla tenda?”. Domanda retorica perché era ovvio che fossi stato io. Poi l'abbiamo sedata in qualche modo. La mamma o la tenda? Tutte e due. Tu da bambino sognavi di fare il chitarrista. Sì, ho incominciato a suonare presto, ma nel momento in cui dovevo dare il massimo alla fine sono andato per altre vie. Però nel cammino poi sono accadute alcune cose che hanno a che fare con la musica. E in verità galeotta fu sempre una chitarra e la scuola di recitazione del Teatro Stabile. Perché è così che hai conosciuto Luca e avete iniziato a far coppia. Sì. Ci siamo incontrati ai provini del Teatro Stabile di Genova, attuale teatro nazionale, e io suonavo. E usciti da scuola abbiamo così deciso di provare a copiare Gaber e fare un po' di teatro canzone. E quello è stato un po’ un inizio. Invece Luca all'inizio con te non fu proprio una botta di simpatia. Beh, no. Hai mai sentito come funzionano questi provini nelle scuole? Arrivano da tutta Italia e vanno a Roma, Genova, Torino, li fanno tutti, e ne passavano pochi. Io e lui ci siamo incrociati nel passaggio dalla prima alla seconda selezione, l’ho salutato, gli ho detto qualcosa tipo “ci vediamo”, e lui mi ha detto: “Ah, io ci sarò, te non lo so”. Poi sono stato fortunato e mi hanno preso, e ho scoperto che lui invece era il quarto anno che provava, quindi faceva tanto il bullo, ma alla fine, insomma, grazie a Dio gli è andata bene perché se non fosse stato per lui la nostra storia sarebbe cambiata. Fondate poi un gruppo cabarettistico che poi è diventato un cult, i Cavalli Marci. Qual è il momento in cui vi siete seduti a tavolino e avete pensato al nome? In realtà c'è stata una sorta di votazione: eravamo dieci fondatori storici, se non sbaglio, poi siamo arrivati a essere 11, 12. Votammo questo nome perché Cavalli Marci è un gioco, c'è bisogno di un muro e poi bisogna essere scemi: uno si mette lì appoggiato al muro, un po’ chinato, e uno gli salta sopra, poi uno prende la rincorsa e salta sopra quello che è saltato sopra; il primo che casca è il cavallo marcio. Un gioco nazionale, insomma, mica locale. Noi lo proponiamo come olimpico. A Genova aveva quel nome lì, poi ne avrà altri in altri posti e quindi abbiamo scelto quello perché sembrava sufficientemente scemo per rappresentarci. Poi da lì facemmo questa non stop di cabaret di 24 ore che entrò nel Guinness o forse non ci entrò, ma insomma a noi piaceva così. Poi la televisione si accorse di noi ed è cominciato tutto. Avete collaborato con Molella, avete inciso un singolo con lui. Sì. Ci chiama e ci dice “sono Molella, vorrei fare questa cosa qua”, e non so chi dei due butta giù. Molella era Molella, aveva fatto il remix di una canzone di Vasco che poteva essere “Rewind”, credo, ed era prima in classifica. E poi Molella ha la voce nasale di uno che imita la sua e invece proprio lui è così. Alla terza volta ci siamo detti che forse era davvero lui. “Vorrei fare una canzone con questo tormentone che avete inventato” e da lì… E il mondo della musica vi ringrazia ancora. Il mondo della musica non so ma alcuni ragazzi cresciuti sì, invece ogni tanto ci ringraziano. Ti riporto invece al liceo. Che studente eri? Mah, studente… Non mi piaceva studiare, andavo a questa scuola internazionale tedesca, quindi anche una scuola piuttosto severa, un linguistico scientifico, per esempio avevo il latino e le versioni le facevo dal latino al tedesco o dal tedesco al latino. Quindi hai un buon tedesco. Ora sono un po' arrugginito però sì, se vado in Germania, dopo una settimana un po' riaffiora. Diciamo che dall'asilo alla maturità io ho parlato in tedesco. Ma perché? Bisognerebbe chiedere ai miei ma non mi hanno mai risposto. Ma questo deriva qualche modo dal cognome, dalla storia familiare? Ma no, perché poi il mio cognome è armeno, quindi coi tedeschi, non è che proprio... Però forse mio padre aveva fatto la scuola svizzera quando era ragazzino e forse questa roba della storia internazionale gli piaceva. Poi era una famiglia piccolo borghese e secondo me mandare i figli alla scuola internazionale gli faceva un po' figo. Un professore o una professoressa che ricordi in maniera particolare? Mi ricordo un professore di matematica, tedesco, che gli avrei voluto mettere le mani addosso, cioè proprio non lo sopportavo. Qualche volta gli risposi anche male. In tedesco? Credo in tedesco, sì. Non mi ricordo cosa gli ho detto ma conoscevo anche le parolacce in tedesco. Sono finito in direzione. Il primo amore, quello non ricambiato. Forse la prima, quella del mare che gli scrivi le lettere, parlo in forma impersonale ma mi ricordo anche come si chiama. Possiamo dirlo? Si chiamava Lisa. Però non ci siamo mai messi insieme. Le scrivevi delle lettere d'amore che lei riceveva? Probabilmente sì, forse mi ha risposto una volta, poi io pensavo che ritornasse ad agosto e mi ricordo queste nottate ad ascoltare le canzoni di Baglioni, a farmi del male. E poi non mi ha mai più scritto. Però non era neanche iniziata, quindi… “E allora mambo” di Lucio Pellegrini è il tuo esordio cinematografico insieme a Luca Bizzarri. Ti ricordi il primo provino o il primo ciak? Il primo ciak me lo ricordo, è stato molto emozionante. Però devo dire nel cinema io mi sono sempre sentito abbastanza a casa, se non per il fatto che è un posto dove devi abituarti a delle lunghe attese e aspettare non è la cosa che mi riesce meglio. Sono piuttosto impaziente. Però, a parte quello, non ero agitato, ero curioso, volevo capire tutto, volevo sapere tutto, volevo guardare tutto. C'è invece un provino o un progetto a cui tenevi in maniera particolare che non è andato? Mi ricordo i primi provini a teatro, quelli che non andavano bene. Mi arrabbiavo sempre molto. Sono stato un attore giovane molto presuntuoso: quando andavano male sbagliavano loro perché non mi avevano preso. Poi. Insomma, è cambiato un po' il mio modo di pensare. Genova: quanto fa parte di te questa città? Beh, ce l'ho nelle vene nel mio modo di essere anche orso ogni tanto. Ma ho anche nelle vene un sangue abbastanza misto, a volte sono genovese, a volte sono armeno, che forse dal punto di vista dell'essere orso è anche peggio. C'è una parte transcaucasica dentro di me e talvolta il mio carattere è spigoloso per questo, sì. Però come sono poi questi genovesi? Hanno soltanto spigolosità? Oh, io trovo che la caratteristica che più definisce, più che un genovese quelli che abitano a Genova, è che cambiano con fatica. A Genova non cambiano le cose. Io ormai vivo a Milano da molto tempo, a Genova ci vado ma non spessissimo, poi non ho più i miei quindi ci vado sempre meno se non per trovare qualche amico. E quando sto lontano da Milano per un po', torno e non ci sono più i negozi che c'erano prima; a Genova ritrovi sempre il negozio di spezie che è lì da 25 anni. È bello ma presuppone anche che si faccia fatica a ripartire, no? Torni per le partite del Genoa? No, allo stadio non ci vado quasi mai, torno poco. La fede resta, però. Ah beh sì, la fede è intoccabile. Appena ne vedo metà del secondo tempo di una subito incomincio a soffrire e allora lascio perdere. Perché poi il calcio è complicato, bisogna aver tempo. Con MTV Trip tu e Luca avete girato l’Italia a bordo di una Fiat 130 allestita da carro funebre. Sì. Di fatto era un carro ed è stato un po' uno dei primi reality show: accendo la telecamera e quello che succede, succede. Tra l’altro con dei mezzi adesso ridicoli: avevamo queste specie di handycam legate con lo scotch. Oggi forse avremmo messo due telefonini e la qualità sarebbe stata maggiore. Quindi è bellissimo ricordare questa cosa. Era uno studio ambulante dove c'era un reality in cui c'erano tanti personaggi e li facevamo tutti noi, quindi molto divertente. A proposito di carri funebri: che cosa ti fa più paura in generale? Eh beh se mi metti il carro funebre davanti me la appoggi: ammalarmi, la salute, ma in generale. E sono in una fase della vita in cui sento di poter affrontare tutto in qualche modo - la difficoltà economica, la perdita di un amico - sento che ce la posso fare. Invece la mancanza della cosa più importante, cioè la salute, quello mi fa paura. Poi ci penso poco, vado dritto ma sicuramente è un semino nei miei pensieri che mi dà fastidio. Hai perso mamma e papà in pochi mesi. Come si convive con il dolore, come si cammina con il dolore? Per me è stato abbastanza catartico continuare a pensarli molto. Io gli parlo, ovviamente posso immaginare come mi rispondono. Mi fa anche molto ridere ogni tanto, perché soprattutto mia madre era un personaggio un po' sui generis. Però ti mancano perché non li puoi più chiamare e avresti bisogno che loro ti dicessero ancora quello che pensano di te o magari ti indicassero la strada. Però io ci parlo molto e faccio le voci. Mi rispondo mentalmente, ovviamente, perché poi se qualcuno mi sentisse risulterebbe un po' strano. Questa cosa devo dire che mi ha aiutato a far sì che sembra quasi che non se ne siano andati. Hai parlato di lettere, quelle che hai bruciato durante la visione di “Dinasty” e quelle che hai scritto a Lisa, ma hai riscoperto invece delle lettere d'amore del tuo papà? Sì, questa cosa mi ha fatto scaturire un pensiero che poi ho scritto sui social, cosa che francamente faccio molto di rado. Mettendo a posto la casa quando ormai non c'era né mamma né papà, insieme a mia sorella, ho scoperto più di 400 lettere in una busta grande. Ed erano delle lettere che mio padre scriveva a mia mamma durante la leva, che allora era di 18 mesi, e quindi erano lettere di una persona che io non avevo mai conosciuto. Non lo avevo mai visto innamorato di quel palpito di quando sei fidanzato, di quando sei giovane. Un po' le ho lette perché ero incuriosito, ma a un certo punto mi è sembrato di spiare dal buco di una serratura e non le ho più guardate. Però mi ha fatto capire che spesso conosci i tuoi genitori ma non conosci forse davvero la persona, è come se ti mancasse un pezzo, quella cosa è stata molto bella. “Camera caffè” è un’altra sorta di esperimento sociale, qualcosa di nuovo. Tendenzialmente uno sketch che dovevo andare dall'inizio alla fine. Non c'era la possibilità di un taglio. No, infatti ci sono stati momenti drammatici perché poi c'erano gli attori con i quali lavoravamo. Noi c'eravamo praticamente in tutti gli episodi, poi c'erano anche altri personaggi, sicuramente importanti e fondamentali, a cui magari toccava la battuta finale di un episodio e se la sbagliava puoi immaginare il tipo di nonnismo che c'era. Sono capitate scene molto divertenti, però insomma quando lo rivedo mi piace sempre tantissimo. Sì, Luca diceva che in certi casi c’era anche una certa arrabbiatura. Eravamo un po' vessatori. Devo dire che io e lui insieme, in quella fase lì, potevamo anche essere poco simpatici, però alla fine è stata davvero forse una delle cose più divertenti e accomunanti che mi ricordi. Puoi rivivere un intenso momento di felicità. Quale sceglieresti? Beh, mi piacerebbe rivivere la prima volta che ho tenuto in braccio mia figlia. È stata una sensazione talmente intensa e forte che mi piacerebbe risentirla. In “Immaturi” di Paolo Genovese, che poi avrà anche un sequel e una serie tv, un gruppo di quarantenni si ritrova a dover ridare la maturità, che poi è un incubo ricorrente di tantissime persone. Ti è mai capitato di sognarlo? Tantissime volte, sì, poi in realtà ho avuto cose peggiori a cui pensare, però per un po' l'ho sognato anch'io, sì. Beh, è la chiusura di un cerchio non da poco. Durante le riprese di “Immaturi” hai avuto un incidente in moto. Sì, durante “Immaturi - Il viaggio”. Eravamo a Paros, erano forse gli ultimi quattro giorni di riprese ed ero rimasto da solo, dopo che erano state con me mia figlia e la mia ex moglie, e ho detto: vabbè, adesso mi prendo una moto. Non lo scooterone, la moto con le marce proprio. Mi piaceva ma era meglio se non la prendevo. Ma un brutto incidente? Eh sì, mi sono ritrovato all'ospedale. Le riprese erano itineranti e mi sono detto: “Vado in moto, così mi giro l'isola per l'ultima volta”, perché uno o due giorni dopo sarei ripartito. E mi ricordo che avevo messo in moto dall'albergo e poi non mi ricordo più niente: ho resettato tutto il viaggio e tutta la parte prima, mi ha spiegato il neurologo, una cosa piuttosto tipica. Io volevo ricordare ma lui mi diceva che non dovevo ricordare. Mi ricordo che sono arrivato al pronto soccorso, mi sono seduto e c'era questo poveraccio tutto bianco in volto anche lui. E ho detto: “Ma chi era quello lì?”, “eh, quello che t'ha investito”. Era uno con un furgone che si è addormentato e mi ha preso in pieno. Credi in Dio? Ci pensavo l'altro giorno e mi sa che alla fine muoio ateo. Sono un grande fan di Margherita Hack e durante il periodo de “Le Iene” le facemmo un'intervista, all’epoca avevo molta fede, un'opinione diversa, e lei disse: “Dopo si muore non c'è nulla”. E adesso ripenso a questa cosa e penso: “Se fosse davvero così? Si spegne la lampadina e fine”. Poi io credo in Dio, in noi, credo nella divinità, credo nel bello. E nel bello c’è Dio. Però forse non ha creato tutto lui. Ma hai una speranza in questo momento o no? Beh, sarebbe più divertente se ci incontrassimo tutti quanti da qualche parte. Diciamo che metto anche in conto che non sia così, a differenza di un tempo. Hai partecipato a Lol. Che cosa ti fa ridere in generale? Le scoregge ecco: basic, basic, basic. Poi sui social, figurati, mi fai vedere TikTok, che fanno la gara, e mi devi raccogliere con le lacrime agli occhi. Non resisto, non resisto. E invece l'ultima volta che hai pianto? Piango in continuazione, sono un piagnone. Che cosa pensi che gli altri dicano di te? Non ne ho la minima idea. Cosa vorresti che gli altri dicessero di te? Che sono per bene, che sono affidabile. Che cosa ti piacerebbe che tua figlia da grande dicesse di te? Che si ricorda del tempo passato insieme. Ecco, questo mi basterebbe, perché il tempo passato insieme è tanta roba, quindi il fatto che abbia dei ricordi è già sufficiente. Hai fatto tantissime cose accanto a Luca, ma tutti restano un po’ sorpresi quando dite che fuori dal lavoro vi frequentate poco. Non percepisci mai questa cosa? Sì, anche quando sono per strada magari mi riconoscono e mi dicono “salutami quell'altro”. C’è questo bisogno un po' di non rompere quell'immaginario di una coppia per come la vedi in televisione. Come Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, nessuno si sarebbe mai potuto immaginare, e infatti non è mai accaduto, che stessero separati. E noi siamo diversi da Sandra Raimondo, non siamo sposati e facciamo vite molto diverse, ma l'abbiamo sempre abbastanza fatto a parte negli anni iniziali. Poi diventando grandi le nostre vite si sono un po' divise. Sono diventate diverse anche le città. Poi, per carità, se c'è una progettualità diversa e si è estremamente complementari anche nella vita, non sono due diverse città in cui vivi a fare la differenza. Quello che conta di più è che è che ci vogliamo bene, poi forse dopo 21 giornate insieme andiamo anche contenti a casa. C'è da fare è nata per sostenere l'area genovese colpita dalla tragedia del Ponte Morandi. Oggi però la vocazione dell'associazione ha cambiato forma e con la tua compagna Silvia sostenete gli adolescenti che hanno un disagio psicologico. Che cosa c'è da fare nell'immediato sul tema degli adolescenti? C'è tantissimo da fare, soprattutto sensibilizzare e parlare dello stigma sulla salute mentale perché sebbene sicuramente si siano fatti dei passi avanti bisogna ancora parlarne molto. Diciamo che nel disagio giovanile, nella salute mentale che accompagna quella fascia di età, diciamo 12-18, che poi è una forbice anche che si allarga a un’adolescenza tarda, ci sono varie espressioni della malattia che possono essere agiti autolesivi, tentativi di suicidio, cutting, ritiro sociale, depressione, disturbi del comportamento alimentare, tante cose. Che secondo me vanno prima di tutto comprese nel complesso e nel contesto della nostra epoca. Poi, il focus principale è raccogliere fondi, perché poi la l'assistenza che garantisce il sistema sanitario nazionale non è sufficiente. Quindi noi abbiamo vari progetti adesso attivi, uno spettacolo che c'è perché abbiamo un un'unicità di tema ma ne parliamo cercando di sorriderne, che è forse il modo migliore, o forse il primo modo è l'inizio della comprensione. Dopo l'esperienza con Morandi sei tornato all'ultima edizione di Sanremo con tua figlia Lunita con un brano, “Ho paura di me”, che è proprio sull'isolamento dei giovani, quindi per continuare a fare cultura. È stato un modo completamente diverso di tornare su quel palco. Sì, è stato molto strano per me e per mia figlia sicuramente nuovo, quindi molto emozionante per entrambi. È stata una delle prime volte che mi sono cagato addosso per due invece che per uno solo, che è particolare come sensazione, e però è stato interessante perché, sebbene a Sanremo ci sia stato tante volte e tutte le volte mi abbia fatto paura quel palco pesante, è stata un'emozione ancora diversa. C’è stato anche un altro momento di paura a Sanremo, perché con Luca avevate fatto un monologo che fu particolarmente, diciamo, attenzionato in quel momento. Sì, più d'uno, poi soprattutto una canzone che parlava proprio di questa diatriba tra Fini e Berlusconi che ha fatto abbastanza la storia. A parte quell'anno lì, che avevamo anche la conduzione quindi abbiamo avuto la fortuna di fare più serate, sono sempre state delle sortite, piuttosto importanti e intense. Insomma, Sanremo è sempre bellissima. Per chiudere ti chiedo di finire la frase: vorrei essere… Più calmo. Perché ti senti agitato? Beh no, non sono una persona agitata ma non sto mai fermo, è un moto continuo. E poi sono dal Leone, quando mi in****o. Ah quindi il Leone si arrabbia? Il problema è che è Leone anche la mia compagna, pensa a tutt'e due…

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Omar Schillaci