Wayne McGregor: “Gli artisti trovano oggetti di confine per parlare diretti all’anima”

Sperimentazione, contaminazione, immaginazione. Ricerca continua di movimenti inesplorati che passano anche attraverso le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale. Si è chiusa la 19esima edizione della Biennale Danza diretta da Wayne McGregor che ha portato sulla scena tanti linguaggi nuovi con oltre 160 artisti sul palco e otto prime mondiali. Un Festival che ha visto una crescita delle presenze del 18% rispetto allo scorso anno, e che ha premiato con il Leone d’oro la leggendaria coreografa americana Twyla Tharp e con il Leone d’argento la regista e performer brasiliana Carolina Bianchi. Abbiamo incontrato il direttore Wayne McGregor a Venezia, nell’ultimo giorno di questa edizione. Qual è il bilancio di questa diciannovesima Biennale Danza? Abbiamo avuto alcune compagnie incredibili, molto diverse tra loro, che si sono espresse con linguaggi molto differenti ma tutte davvero in sintonia con l'idea di creare o raccontare un mito contemporaneo. Ed è stato davvero meraviglioso vedere la reazione del pubblico a voci così diverse. Proprio all’idea degli artisti come creatori di miti contemporanei è stata dedicata questa edizione. Nel passato la mitologia ha aiutato a comprendere il mondo e la vita. Ed è strano pensare che in questo momento storico in cui ci confrontiamo con l'intelligenza artificiale ci sia bisogno di nuovi miti… Penso che non dovremmo avere paura del futuro ma che dovremmo al contrario abbracciarlo. E credo che una via per farlo, ed è anche qualcosa che gli artisti hanno sempre fatto, sia quella di riuscire a dialogare su argomenti molto difficili per l’essere umano in una modalità che possa andare oltre la realtà e la vita quotidiana. E questa è una delle cose belle della mitologia perché ci permette di entrare in una realtà alternativa e di esplorare una tematica da una prospettiva molto epica. Quindi, pensando all’intelligenza artificiale, parlare di I.A. in relazione ai miti ci permette di umanizzarla. E il ruolo degli artisti in questo è fondamentale perché trovano sempre quelli che io chiamo “oggetti di confine” e riescono così, attraverso la loro arte, a parlare di tematiche difficili comunicando direttamente con l’anima degli spettatori. Questa è la magia della danza ma è anche una delle cose belle dell'affrontare un tema come quello dei miti, in cui la scala e la dimensione dell'idea è enorme, a volte troppo grande per essere compresa, ma può essere appunto ridotta in qualcosa di veramente accessibile e facilmente comprensibile al pubblico. C’è un coreografo o un artista che l’ha colpita di più? Credo sia davvero difficile parlare di uno o di pochi. Posso dire che ciò che più mi ha sorpreso è stato il dialogo tra i lavori. Si può cogliere, ad esempio, una connessione tra la compagnia australiana Chunky Move con i loro esoscheletri robotizzati e l’installazione in 3D che ho fatto io che è molto incentrata sui corpi virtuali. Ma anche con il lavoro presentato da Marcos Morau che riesce a raccontare immagini multiple come una sorta di flip book che si muove nel tempo. Sono state proprio queste connessioni che si sono create tra gli artisti, seppur molto diversi tra loro, a colpirmi più di ogni altra cosa. Poi io amo sempre anche la danza pura e semplice e quest’anno sono tornati qui alla Biennale i Tao Dance Theater con un altro programma incredibile in cui si sono concentrati, ad esempio, solo sui movimenti della testa riuscendo da lì, dal semplice movimento del corpo, a creare un intero mondo immaginativo. Così anche il lavoro Friends of Forsythe che riesce a esprimere tutta la potenza del movimento nella purezza della danza. Ha citato la sua installazione On The Other Earth che avvolge lo spettatore a 360 gradi. Un’esperienza immersiva in cui le immagini panoramiche in 3D vengono vissute circondati da un’architettura cilindrica. È un qualcosa che rivoluzione completamente il concetto di spazio… L’idea centrale dell’installazione nasce dalla domanda su come si possano riconfigurare gli spazi in modo che il pubblico possa trovarsi proprio al centro, nel cuore della danza. Come si può fare in modo che il pubblico sia il più vicino possibile a un corpo? E quando lo spettatore vede il corpo in un mondo digitale, ci crede? Crede che possa essere lì? Sente una connessione empatica con la sua espressione e la sua fisicità? Credo che attraverso una sorta di isolamento ci si possa avvicinare proprio a questo. Quanto l’I.A. può essere di aiuto nella creazione di nuovi lavori coreografici? Ciò che mi motiva sempre è la potenzialità del corpo umano, questo è il fascino del mio essere coreografo. L’essenza del mio lavoro è sempre: cosa può fare questa tecnologia corporea? Negli ultimi 30 anni abbiamo cercato di lavorare su come rendere una presenza digitale sempre più vicina a quella reale, di arrivare a una sorta di equivalenza. Siamo rimasti lontani da questo obiettivo per molto tempo ma l’I.A. e le nuove piattaforme ci stanno aiutando a ridurre sempre di più questo divario. Uno non potrà mai sostituire l’altro ma siamo su una strada parallela e ci possono essere delle analogie. Un’ultima domanda, qualche giorno fa è scomparso Bob Wilson, un uomo che ha rivoluzionato il teatro con la sua idea di opera d’arte totale. Qual è la sua eredità? Ho visto tanti suoi lavori davvero incredibili. La sua scomparsa mi fa riflettere sul fatto che un artista può comunicare e toccare le persone per tutta la vita. Ma allo stesso tempo ci ricorda anche che, in quanto uomini, non siamo immortali e quindi dobbiamo cogliere l’attimo e le giornate. Dobbiamo essere gentili, comprensivi, creativi e innovativi. E credo che Bob sia stato un esempio straordinario.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Wayne McGregor: “Gli artisti trovano oggetti di confine per parlare diretti all’anima”

Chiara Ribichini