Hulk Hogan, lo showman che ha portato il wrestling in tutte le case
SpettacoloÈ morta l'icona del wrestling mondiale. Ma il suo ricordo resiste nei pomeriggi davanti alla TV, nei bambini che imitavano il leg drop, nei miti che non invecchiano mai
C’è stato un tempo in cui l’eroe era abbronzato, aveva i baffi biondi e si strappava la maglietta a mani nude. Un tempo in cui bastava un dito puntato, una corsa tra le corde e un leg drop per mandare al tappeto il cattivo di turno. Quel tempo aveva un volto, un nome, e un grido di battaglia: “Whatcha gonna do, brother?”
Hulk Hogan non era solo un wrestler. Era il wrestler. Il simbolo di un’epoca in cui il ring non era solo sport, ma mitologia pop. Con il suo fisico scolpito, la bandana americana, le t-shirt gialle tagliate in due, era il prototipo del supereroe in carne e ossa. Prima di Iron Man, prima della Marvel esplosa al cinema, prima che il concetto di franchise dominasse la cultura globale, Hogan era un personaggio universale: lo conoscevano bambini e nonni, in America come in Italia, nelle palestre scolastiche come nei fumetti.
Nato Terry Eugene Bollea, figlio della Florida e delle chitarre rock, divenne Hulk Hogan negli anni ’80 sotto l’ala di Vince McMahon, in un momento in cui la WWE (allora WWF) cercava un volto capace di entrare nelle case, oltre che nei palazzetti. E lui ci entrò. Ovunque. Cartoni animati, talk show, spot pubblicitari, action figure. Era una rockstar del body slam, una creatura in grado di trasformare ogni entrata sul ring in un evento, ogni sconfitta in una lezione morale, ogni trionfo in una liberazione collettiva.
Tra cinema, tv e reality: Hogan superstar
Il suo carisma non si è fermato al wrestling. Hogan ha attraversato gli schermi anche da attore, protagonista di un filone tutto suo: muscoli, ironia e buoni sentimenti. Lo abbiamo visto in film come Un papà da salvare (Santa with Muscles), Mr. Nanny e Commando per un giorno (Suburban Commando), prodotti a metà strada tra action e family comedy, che per i bambini degli anni ’90 erano piccoli cult del pomeriggio. Era lui il lottatore Thunderlips in Rocky III, accanto a Sylvester Stallone. È stato anche presenza fissa in programmi TV, sketch, camei e special televisivi, fino a diventare volto principale del reality Hogan Knows Best (2005–2007), uno dei primi esperimenti di docu-reality sulla vita privata di una celebrità dello sport. In quell’occasione, si mostrava come padre, marito, figura protettiva ma anche fallibile: un Hulk fuori dal ring, con preoccupazioni reali, tensioni familiari e una vulnerabilità sorprendente.
Persino quando la macchina del wrestling rallentava, la figura di Hogan restava familiare. Perché faceva parte della cultura visiva, delle VHS consumate, delle merende davanti alla TV. Era ovunque. E in qualche modo, lo è stato anche quando la carriera sul ring era ormai alle spalle.
Il bene, il male e il colore primario del mito
Era facile tifare per Hulk Hogan. Forse anche troppo. Era costruito per essere amato: muscoli, lealtà, patriottismo, buoni sentimenti, preghiera, vitamine. Una maschera che sembrava impermeabile al tempo. Ma che con il tempo ha dovuto fare i conti. Come ogni leggenda che si rispetti, anche Hogan ha avuto il suo declino. Gli scandali, i reality, le frasi sbagliate, le accuse di razzismo, i processi mediatici. Ma il mito — quello vero, quello delle domeniche davanti a Italia 1, con Maniaci del wrestling e le telecronache sopra le righe — è rimasto lì. Intatto. Intoccabile.
Perché Hogan è stato, prima di tutto, un’idea. L’idea che la forza potesse essere giusta. Che il bene potesse avere le spalle larghe. Che l’eroe potesse vincere davvero. In un mondo in cui le sfumature dominano, lui era bianco o nero. Cattivo o buono. E per un’intera generazione, quella semplicità ha rappresentato conforto, ordine, giustizia.
L’arena è vuota, ma l’eco rimbalza ancora
Non importa se poi il wrestling è diventato più complesso, più spettacolare, più cinico. Non importa se oggi i fan adorano l’anti-eroe, se i lottatori parlano ai microfoni come attori di Broadway, se l’immaginario si è fatto più fluido e stratificato. Hulk Hogan resterà sempre quel momento esatto in cui, da bambini, credevamo che bastasse davvero credere in sé stessi per spezzare qualsiasi catena.
È morto Hulk Hogan. O forse no. Perché gli eroi di quel tipo, quelli disegnati col pennarello grosso e i colori primari, non scompaiono davvero. Restano nei video sgranati su YouTube. Nei giocattoli consumati. Nelle imitazioni goffe fatte da ragazzini davanti allo specchio. Restano nei cuori di chi, almeno una volta, ha alzato il braccio al cielo gridando “Hulkamania is running wild!”.