Paola Mattioli, "L’infinito nel volto dell’altro", sul ritratto fotografico

Spettacolo
Barbara  Ferrara

Barbara Ferrara

Paola Mattioli, Calesse nel giardino Majorelle, Marrakech, 1986
serie Aldo Mondino / 28, 1986  (carrozza nell'ombra)

Per la collana Sguardi e visioni di Mimesis dedicata ai fotografi e diretta da Francesca Amato, esce il libro di Paola Mattioli, un viaggio autobiografico che si fa autoritratto e ripercorre alcune delle tappe più significative della sua carriera attraverso una selezione delle sue opere più rappresentative. Una riflessione sull’arte del ritratto che spalanca le porte a nuovi modi di guardare, “non solo esseri umani, ma anche altre cose: parole, concetti, idee, racconti”. L’intervista

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Incontriamo Paola Mattioli nella sua casa milanese dopo la presentazione al MIA Photo Fair del libro edito da Mimesis, “L’infinito nel volto dell’altro”, un volume che riflette sull’arte del ritratto, racconta la propria visione della fotografia e al contempo ripercorre alcune delle tappe più significative della sua vita personale e professionale che, come nell’archivio di un fotografo, spesso si mescolano dando vita a immagini e racconti di rara intensità. L’autrice ci accoglie nel qui e ora di una conversazione che potrebbe andare avanti per ore e tocca più temi, dal significato del verbo "ritrarre" alla verità che si rivela in superficie, dal rapporto alchimico tra il fotografo e il soggetto fotografato ai ricordi degli esordi, dall’incontro con Ugo Mulas di cui diventa assistente “per sbaglio” quando era ancora una matricola universitaria al presente e al futuro incerto. 

 

Pioniera della fotografia femminile nell’Italia degli Anni Settanta, ha ventidue anni quando scatta il suo più celebre ritratto, quello di Giuseppe Ungaretti un mese prima della sua morte (“Ero terrorizzata, ha fatto tutto lui”). Da quel momento non ha mai smesso di esplorare i mezzi filosofici e politici del linguaggio fotografico. Dai ritratti degli operai di Dalmine e Fabbrico agli albini africani, dalle Immagini del No del Referendum sull’abrogazione del divorzio del 1974 alla campagna per la collezione Dior donna prêt-à-porter FW 2020 di Maria Grazia Chiuri ispirata al femminismo, lo sguardo di Paola Mattioli "guarda con attenzione", non solo esseri umani, ma parole e concetti. L’idea del libro, “nasce dalla collana Sguardi e Visioni diretta da Francesca Amato in risposta a una sua richiesta rivolta agli autori di scrivere sulle cose che fanno…in effetti i lavori fotografici hanno un po’ bisogno di essere collocati, perché come ha detto recentemente Michele Smargiassi, “la fotografia mostra, ma non spiega”. Scriverlo è stato come “fermarsi un attimo, girarsi indietro e guardare il proprio archivio, cercare il filo rosso, i collegamenti tra una cosa e l'altra”. 

l'intervista 

“L’accidentale rivela l’uomo”, diceva Picasso, è quel che è successo a lei con la fotografia e l’incontro con Mulas.
Sì, diciamo che ha fatto venir fuori, sono capitata in un punto di eccellenza, io ero già divisa in due, mi ero iscritta a Lettere ma ero incerta con Architettura, poi ho incontrato un filosofo che è diventato il padre di mia figlia, e mi sono iscritta a Filosofia. Contemporaneamente mi ero già iscritta ad un’Accademia d’arte, pur essendo vuota come una zucca nel senso che non avevo mai preso una matita in mano. Avevo una parte interessata al visivo, ma è stata la ricchezza della circostanza, tutte le vite sono segnate da questo, penso. Da Mulas ho visto una fotografia e mi sono resa conto che era così speciale, così di alto livello, di alto senso, di alto significato, anche nelle piccole cose. Mulas non era un reporter, il suo impegno era nello sguardo, nel rapporto con l’arte e con gli artisti.

 

Cosa pensa di aver assorbito dallo sguardo di Mulas?
Da una parte mi verrebbe da rispondere tutto, dall’altra mi viene in mente il tema della sequenza, il concetto che una fotografia non si esaurisce con un’immagine sola. Uno dei punti saldi della fotografia è la parzialità, la fotografia taglia temporalmente e fisicamente una fetta di realtà, quindi una sequenza arricchisce il racconto in una piccola serie che offre più sfaccettature.

 

Può farci un esempio?
Mi viene in mente quando Mulas propone a Fontana di essere fotografato e questi gli dice che mentre lavora ha i suoi rituali e quindi alla fine decidono insieme le foto che avrebbero potuto raccontare la sua opera. Costruiscono uno storyboard, e a me sembra che quest’organizzazione tra fotografo e soggetto fotografato sia una cosa molto avanzata, entrambi hanno dato vita alla messa in immagine di quello che volevano dire, il fatto di deciderlo di comune accordo, significa decidere insieme una sequenza.

 

C’è una verità nel ritratto o dietro un volto si cela sempre una maschera?
Io credo che la maschera sia una costruzione della vita sul volto e penso sia una cosa molto bella, mi sembra un atteggiamento un po’ romantico pensare che nel fotografare una persona la si debba far cadere, secondo me è la risultante dell’incontro tra il fotografo e il fotografato e del rapporto che si instaura tra loro in quel dato momento. Ho grande rispetto per la maschera, che siano le tracce sul viso della propria vita, o che sia qualsiasi tipo di eccesso, per esempio di trucco o altro, tutto questo racconta qualcosa, perché devo toglierlo? Io penso che la verità sia sulla superficie. Semmai mi preoccupo di collocare la persona in un contesto che racconti qualcosa della sua storia, sempre che sia possibile. Basterebbe anche un piccolo dettaglio, a volte anche il tipo di abbigliamento dice qualcosa, un uomo con il collo alto dice una cosa, uno in giacca e cravatta ne dice un’altra. 

 

Cos’è per lei un ritratto?
La parola ritratto per me vuol dire attenzione, guardare con attenzione, un’idea, un oggetto, un vedere, una storia, un racconto, una responsabilità, una postura, una domanda, una parzialità, una sottile distanza, un testo.

 

A proposito di testo, quali meccanismi della scrittura è riuscita a trasferire alle immagini?
Il racconto breve e il racconto lungo, in un’immagine ci sono le dimensioni del racconto, nell’apertura e nella chiusura. Ricordo che ero particolarmente affascinata da alcuni romanzi in cui si dipanano storie diverse che si ricollegano in qualche modo, mi viene in mente Irene Nèmirovsky, in Suite francese l’intreccio è progettato in modo da tenere aperti diversi piani apparentemente separati, che poi però convergono, e questo sovrapporsi rende tutto più ricco come in un caleidoscopio in cui da tutto si può dedurre un’architettura. Per me, quando leggo un libro la cosa principale è l’indice, per sapere che architettura ho di fronte, forse è una deformazione liceale, ma mi serve per capire cosa ho davanti a me, cosa aspettarmi, se sto guardando, se sto leggendo o se sto ascoltando.


Susan Sontag diceva che “tutto esiste per finire in una fotografia”, concorda?
Sì soprattutto oggi che siamo bombardati, delle volte non si riconosce una fotografia interessante a causa della quantità di immagini che riceviamo, non so dove e in che direzione stiamo andando, è una follia; non ci capiamo più niente, si mescola un po’ tutto, ci si alza al mattino e si è già sommersi dalle immagini. D'altronde sono i telefonini che hanno portato a questo, quando sono diventati macchine fotografiche.

 

Con l’avvento degli smartphone è cambiato tutto, la fotografia resiste ancora?
E’ cambiato il reportage perché c’è sempre qualcuno nel luogo in cui sta succedendo una cosa, c’è sempre qualcuno che arriva prima del fotografo inviato dall’agenzia, al fotografo resta l’approfondimento della notizia nel contesto di un lavoro più profondo, la fotografia di reportage diventa più lenta, a lungo termine. Mentre la moda e la pubblicità ne hanno ancora bisogno, soprattutto di una fotografia particolarmente sofisticata. E anche il ritratto continuerò a esserci, la gente vuol sapere chi è il tale, siamo comunque davanti a una rivoluzione, non sono dove andremo, e lo dico in un discorso più ampio. Leggere i giornali al mattino è un bollettino di guerra, la mia è una posizione spaventata sul futuro.

 

Che consiglio darebbe ad una persona che volesse fare questo mestiere oggi?
Mi verrebbe da consigliargli di cambiare mestiere e fare video, il futuro è più lì anche perché i quotidiani sono tutti online e il video ha dentro anche la parola, in questo momento direi che fare pura fotografia è un disastro. La fotografia secondo me si è spostata più sull’arte, è un’immagine di sintesi, di un lavoro articolato che viene declinato e diffuso dalle gallerie a vari livelli.

 

C’è uno scatto a cui si sente particolarmente legata?
Forse l'ultima inserita nel libro, è messa lì in maniera totalmente incomprensibile (Calesse nel giardino Majorelle, Marrakech, 1986 ndr) e a suo modo è un autoritratto, è un’ombra che si proietta. Non riesco più neanche a ricordarmi cosa posso aver fotografato, eppure ero lì. C'erano due muri di una strada piccolina, siamo a Marrakech, c’è l'ombra mia e quella del mio compagno, poi c'è un bambino che corre dentro l'ombra. Questa foto nel libro non è per niente giustificata né raccontata è una foto alla quale sono molto affezionata, sono affezionata a molte, ma questa è molto personale, è un viaggio. 

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