Paolo Cantù, il filosofo sperimentatore del Teatro italiano
SpettacoloTre teatri in una sola piazza e un progetto triennale. Paolo Cantù è entrato nel mondo del teatro con curiosità e...filosofia e oggi amministra uno dei poli teatrali più importanti d'Italia. La sua storia in questa intervista
(@BassoFabrizio)
Il fantasma dell'opera ora ha un nome. Si chiama Paolo Cantù ed è il direttore, con mandato triennale, de I Teatri di Reggio Emilia, la sola città ad avere tre teatri nella stessa piazza: Teatro Municipale Valli, Teatro Ariosto e Teatro Cavallerizza. E' un fantasma perché è ovunque e in nessun luogo ma c'è sempre. A prescindere dal sipario. Essere direttore di un teatro significa ricoprire tutti i ruoli tranne raccogliere gli applausi del pubblico. Ci siamo incontrati nel suo ufficio che affaccia sulla piazza ma per raggiungerlo si compie un giro tortuoso, un sali e scendi di scale, intrise di culture e storia, che mi hanno ricordato la labirintica biblioteca de Il Nome della Rosa, quella che Umberto Eco ribattezzò un opificio di sapienza. Ma poi si arriva. E si chiacchiera.
Chi è Paolo Cantù?
Un laureato in filosofia che ringrazia per avere quella laurea: mi ha insegnato un metodo di studio e di lavoro, mi ha dato capacità di critica.
Nessun ripensamento?
La rifarei domani. Quando hai basi culturali ogni via è percorribile.
La tesi?
In filosofia teoretica. Preparandola mi appassiono al teatro. Per un attimo ho pensato al dottorato poi volevo iniziare a lavorare seriamente.
Cosa fa un direttore di teatro?
Gestisce il personali e le relazione. Risolve i problemi.
Come hai iniziato?
Dalla base facendo la maschera. Poi ho frequentato un master di arte visiva a Brera, altra mia passione oltre al teatro, e mi sono specializzato sulla figura del curatore. Ho avuto come insegnante Paolo Rosa di Studio Azzurro che lavorava con Antonio Calbi; ho fatto lo stage al TeatroNovanta. Quello è stato per me l'ingresso organizzativo. Quindi c'è stato uno stage al MittelFest in Friuli. Io avevo bisogno di cominciare a mantenermi e mi dissero tra un po’ inizieranno a pagarti per quello che fai.
E' accaduto?
Renato Sarti apriva un teatro, oggi il Teatro della Cooperativa e mi ha chiesto di seguire la parte organizzativa.
Come è andata?
Considera che ero un auto-didatta perché tutti uscivano dalla scuola Paolo Grassi. Mi sono sentito per un po’ un intruso. Ho fatto tutto, dalla pulizia dei bagni a trattare con le compagnie.
C'è stato un momento in cui ha compreso che c'era aria di svolta?
Ho collaborato col Teatro Europeo a Torino quando il direttore Beppe Navello ha creato una fondazione partecipata e poi per disperazione mi ha chiamato a decidere in 48 ore. I casi della vita.
E che hai fatto?
Mi sono trovato a Torino a gestire 25 persone che per un teatro italiano è tanta roba. Abbiamo portato il Festival nelle residenze reali del Piemonte. Abbiamo lavorato tantissimo ma ci siamo pure divertiti. Poi sono tornato un po’ al Franco Parenti a Milano per questioni personali, era l'epoca in cui si costruiva la piscina. Ci sono rimasto tre anni. Poi ho aderito a un bando per il Piemonte, mi sono fatto convincere e sono diventato direttore.
A Reggio Emilia cosa stai progettando?
Per buona parte è chiusa la stagione 2020/2021 mentre per quella stagione lirica stiamo progettando il 2021/22.
Fiore all'occhiello è il Festival Aperto.
Quella è la vetrina del contemporaneo. Con tre teatri nella stessa piazza possiamo divertirci. Sperimentiamo le cose più strane, musica e danza contemporanea. Giriamo intorno al teatro sperimentale, definirlo di ricerca non mi piace.
La soggettività incide sulle scelte?
A volte assisto a fenomeni che non mi piacciono ma il tema sul quale mi concerto è il rapporto interessante/utile. Altro momento di cui siamo fieri è il Concorso Internazionale Paolo Borciani per quartetti d'archi.
Dedichi molta attenzione all'opera eppure se vai all'Area di Verona, al Festival Pucciniano di Torre del Lago o al Teatro del Silenzio di Bocelli il pubblico è all'80 per cento straniero.
Quel genere è nel nostro DNA, noi abbiamo costruito la storia del melodramma. Ci sta che il pubblico sia internazionale: oggi il simbolo dell’Italia sono la Ferrari e la Scala. E’ un patrimonio assoluto. E poi diciamocelo: noi la facciamo meglio degli altri.
Hai tre teatri in una piazza.
Credo che l'eterogeneità sia positiva. Questa dimensione di città è poi un valore aggiunto.
Ti mancano le grandi compagnie teatrali? Hai nostalgia di qualcosa?
E' cambiato il mondo. La mia nostalgia è per i registi che sanno fare e regia e per gli attori che sanno recitare. Non che oggi non ce ne siano sia chiaro. Il cambiamento più evidente è, secondo me, che una volta la compagnia girava intorno all’attore oggi è il teatro il perno.
Reggio Emilia è un esempio di cultura illuminata e condivisa.
C'è una filiera che mette in fila l'Istituto Peri, la Fondazione Aterballetto e la Fondazione I Teatri.
Tu attore?
Mai.
Periodo ipotetico dell'irrealtà: se dovessi essere protagonista che autore vorresti?
Cechov tutta la vita.ma anche Shakespeare mi affascina.
Ci sono proposte cui non puoi dire no?
Non sono obbligato a niente. Mi piace scommettere su un progetto nuovo, fidarmi di progetto e di un artista.
Ed eccoci all'elemento più complesso, l'Opera.
Per me è una sfida entrare nel mondo della lirica. Sono macchine straordinarie e complesse che coinvolgono circa 150 persone. Ripeto sono costose e complesse. C’è un sistema regionale del quale facciamo parte, siamo tra i teatri dell’Emilia coinvolti, ci incontriamo con frequenza, progettiamo insieme varie cose, soprattutto con Piacenza e Modena, poi con Ravenna e ultimamente con Bologna. La tradizione aiuta. Poi ci confrontiamo con fondazione sinfoniche di altre regioni e proviamo a costruire progetti internazionali. L'Opera Europa è il nostro cerchi magico.
Ai tuoi figli cosa racconti del tuo lavoro?
Parlo poco del mio lavoro a casa. Sanno che lavoro in teatro.
Nel tempo libero che fai?
Il runner e sto in famiglia. E cerchiamo di divertirci.