Bob Dylan, suggestioni e stravolgimenti all'Arena di Verona

Spettacolo

Fabrizio Basso

Bob Dylan all'Arena di Verona
bob_dylan

Una notte di musica e (suggestioni) Nobel all'Arena di Verona. Che si è fermata per applaudire il Menestrello d'America. Un'ora e mezza di puro spettacolo, in silenzio, davanti alla storia della musica planetaria, Bob Dylan. Con una sola nota sullo spartito...qualche stravolgimento di troppo rispetto alle versioni originali nell'esecuzione

(@BassoFabrizio
Inviato a Verona)


La prima volta dopo il Premio Nobel. Bob Dylan è tornato a suonare in Italia per la prima volta dopo avere ottenuto il riconoscimento dall'Accademia di Stoccolma. Ma guardando oltre quel riconoscimento, Bob Dylan è l'inventore di Like a Rolling Stone, una delle canzoni più influenti della storia della musica moderna, nonostante i suoi anti-commerciali sei minuti. Fu protagonista, al Newport Folk Festival del 1965, quando venne fischiato per aver osato suonare in elettrico; è l'Ideatore del Folk-rock e del primo album doppio della storia quel Blonde on Blonde del 1966...potremmo continuare all'infinito. Bob Dylan, dopo tre anni dall'ultimo tour in Italia, torna per farci sognare ancora una volta con un tour straordinario e mai prevedibile grazie ai super promoter D'Alessandro e Galli.

L'anfiteatro veronese diventa un intimo locale dalle atmosfere blues. Palco minimal, sufficiente per accogliere gli strumenti, incorniciato con poche ma grandi luci soffuse dai colori caldi e intensi. Il divieto di foto e video rende l'Arena buia e romantica. Non stupitevi se incontrate qualcuno che assiste  a ogni tappa dei concerti di Dylan, i più esperti sanno che ogni volta è diversa, ogni volta è unica, un ritmo segnato dalla creatività pungente e dinamica di un artista senza tempo.

Il risultato è un Neverending tour, letteralmente senza fine come il mito che sembra nascondersi in mezzo alla band. Non viene lasciato spazio per le parole, è un grande spartito senza pagine bianche, musica che non si ferma mai, nemmeno alla fine quando tutti ci aspetteremmo un "good night" o un "thank you" (in Italia solo Paolo Conte non fiata per oltre due ore). Poco importa, si respira arte anche nei secondi tra un brano e l'altro, quando gli strumenti suonano note libere, discordanti, qualcuno si accorda, per poi riunirsi in un'armonia all'inizio indefinita.

Ogni canzone su questo palco rinasce, viene smontata e ricomposta, tanto che a volte, ma non sempre, è il testo che ci aiuta a riconoscere che non è un nuovo brano inedito ma un indiscusso successo dylaniano. Dylan non si è smentito, si è mostrato come chi lo conosce si aspettava, silenzioso, eccentrico, creativo, travolgente e stravolgente. Lo vediamo concentrarsi sul pianoforte suonando seduto o in piedi, alternandolo all'asta del microfono, con Melancholy mood per esempio, tenuta a mezz'aria. L'artista ripropone grandi classici, come Things have changed che apre la serata, Highway 61 completamente rivisitata, Pay in blood, Desolation row, Autumn leaves, o Ballad of a thin man. La scaletta non cambia rispetto alle altre date italiane, ma vengono interpretati sempre in modo nuovo rendendo irriconoscibile anche l’universale Blowin' in the wind.

Il rischio è quello di sacrificare l’ascolto spensierato per cercare di sintonizzarsi, in modo anche morboso dopo il quinto o decimo brano non riconosciuto, su testo e musica per capire quale dei grandi successi stiano suonando. Esco da uno dei numerosi arcavoli e la domanda ricorrente è: "Ma tu l'avevi riconosciuta?”, seguita da "Comunque è sempre magico". Non nascondiamo però che ci sarebbe piaciuto riuscire a cantare insieme a lui i classici che ci hanno sempre accompagnato.

 

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