Disturbi dell'apprendimento sovrastimati? Tutt'altro, vi spiego perché

Prego, scomodati ché parliamo di carenza di diagnosi. “Che ore sono? Me lo leggeresti sull’orologio appeso a quella parete?” “Adesso invece ti chiederò di fare alcuni calcoli a mente: 170 + 122?” “Per stabilire se un numero è più grande di un altro, devi pensarci?” “Se un numero è scritto in cifre, fatichi a leggerlo pronunciandolo ad alta voce?” Ho accompagnato una delle mie figlie ad un primo colloquio per stabilire se avviare il percorso di valutazione per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, sospettiamo la possibilità di una discalculia e la neuropsichiatra sta tastando il terreno. Seduta accanto ad Agnese, io rispondo a mente: per capire che ore fossero ho dovuto pensarci, 170 + 122 l’ho sbagliato cinque volte, mi pare di saper dire immediatamente se un numero è maggiore o minore di un altro ma in effetti sbaglio spesso nel leggerli e scriverli in cifre. In terza elementare iniziammo a fare i “problemini” e a me fu subito abbastanza chiaro che mi si fosse come bucata una gomma: iniziai ad arrancare, divenni più lenta, sperimentai per la prima volta lo straniamento di vedere tutto nero quando uscivo alla lavagna, di non essere in grado di sverginare un foglio bianco, di non trovare risposte a domande che, guardandomi intorno, facevano annuire i miei compagni pronti a pronunciare esiti per quesiti che io non avevo nemmeno ancora capito. Iniziai a fare ripetizioni alle medie, con una vecchissima insegnante di matematica in pensione che, mentre io incespicavo su calcoli elementari, svolgeva le espressioni a mente leggendo il mio quaderno al contrario dall’altro lato del tavolo della sua cucina. Scelsi saggiamente il liceo classico per il monte ore ridotto al minimo dedicato alla matematica, giungendo all’esame di maturità senza voti in trigonometria e fisica, non classificabili. All’università, la prima volta che diedi l’esame di Psicometria presi 2. 2 su 30, intendo. Lo ritentai altre sette volte dopo essermi letteralmente trasferita dal mio amico e compagno di corso Luciano, geniaccio che prima ancora che ci laureassimo assisteva a lezione il nostro docente e che ormai da tanti anni fa il ricercatore ad Harvard: vivevo a casa sua dove lui provava a spiegarmi la deviazione standard, riuscendo ad un certo punto a trovare il modo per rendermi comprensibile la Statistica. Così, pur avendo avuto una vita e una carriera scolastica segnate dalla certezza di essere stupida dagli otto anni in avanti, a ventitré grazie a Luciano mi si affacciò l’eventualità che forse non fossi poi così rimbambita: è che a me le “cose dei numeri” vanno dette in un altro modo. Se me le spieghi come le dice il libro, se non mi fai vedere il senso, se non colgo il disegno logico sottostante, per me sono un precipizio senza fondo dentro al quale cadere di testa. Ho bisogno di una spiegazione personalizzata, laterale, creativa. Mi servono parole, per i numeri. Non ho mai saputo di essere discalculica, perché non ho mai sentito pronunciare questa parola quand’ero studentessa. D’altronde, la legge 170 che norma la condizione degli studenti con DSA è del 2010, anno nel quale io avevo … 31 anni e potevo ormai tenermi alla larghissima dalle “robe dei numeri”. Certo, non so calcolare il resto. Chiunque potrebbe fregarmi. Sbaglio le date, sbaglio a impostare la sveglia, pochissimo tempo fa ho dovuto scrivere quattro volte ad una paziente per fissare un colloquio di recupero perché mi confondevo sul giorno e sull’ora - pensavo una cosa e ne scrivevo un’altra. Non ho il senso della misura, mi sfuggono gli ordini di grandezza, non ho mai potuto essere contributiva con le mie figlie se mi facevano una domanda durante i compiti di aritmetica o geometria. Questo non mi ha tuttavia impedito di laurearmi, specializzarmi, fare due Master, una carriera ben oltre le mie ambizioni, scoprire che ho un QI molto al di sopra della media. Non so dire quanti altri miei compagni avessero le mie stesse difficoltà oppure altre afferenti la dislessia, disortografia, disgrafia. Non lo so perché sarebbe come valutare il tasso di incidenza dei disturbi del comportamento alimentare dopo l’anno Mille: si chiamavano sante ascetiche, non anoressiche. Come noi ci chiamavamo somari, tonti, lazzaroni, poco svegli, scemi, lenti. Ve ne scrivo ora che imperversa la polemica circa la patologizzazione e la sovradiagnosi dei nostri figli e studenti perché sono a dirvi che io purtroppo penso l’esatto contrario. Posto infatti che potrebbero esistere i professionisti conniventi e le famiglie furbone che vogliono spianare la strada ai loro delfini, posto altrettanto che al genitore contemporaneo in effetti non interessa la formazione dei figli ma solo la loro performance, posto che conosco chi tira un sospiro di sollievo di fronte a un ADHD perché così “Non sono io, sei tu”, pur nell’epoca inaugurata dalla cosiddetta “Therapy generation” , la mia pratica sia di clinica che di supervisora mi dice quotidianamente che la qualità specifica del genitore di oggi non è poi così coerente con un abuso della diagnosi, anzi. La madre e il padre contemporanei non ne vogliono sapere di variazioni sul tema della riuscita immacolata dei propri pargoli: in famiglia va sempre tutto benissimo, in casa si è felicissimi, il figlio è contentissimo della scuola superiore che gli hanno scelto loro che lo conoscono così bene e pensano al suo futuro, la figlia sputa il cibo nel tovagliolo ma è solo un capriccio passeggero, il bambino ha dato fuoco al peluche del fratellino ma è normale che sia geloso, la piccola a cinque anni prende ancora il seno ma siccome non si riesce a convincerla a smettere lo farà quando si sentirà pronta nel rispetto dei suoi tempi, il ragazzo si è inciso con il taglierino una svastica sull’avambraccio ma solo perché si annoiava in classe, la ragazza studia filosofia insieme alla mamma ma è un bel momento condiviso d’altronde hanno sempre avuto un rapporto più da amiche che tra madre e figlia. Non tutte queste condizioni sono necessariamente di matrice diagnostica o sindromica, ma di certo non sono normali - laddove “normali” significa, in età evolutiva, “alleate dello sviluppo e amiche del cuore del miglior domani possibile”. La famiglia contemporanea è fragile, pretende dal figlio un funzionamento efficiente perché trova in lui un riscatto e l’illusione di un rimedio alle proprie ferite narcisistiche. In questo senso, mi pare drammaticamente più frequente il caso di coloro i quali non accolgono le segnalazioni di fatica o preoccupazione da parte degli insegnanti, perché “Nostro figlio non ha niente e a casa non si comporta così”. Genitori che si spaventano, si vergognano, si deprimono se si svirgola dalla prestazione, perché sarebbero costretti a pensare. A cosa? All’unicità del figlio. Alla sua quiddità, tommasitudine, matilditudine, ai suoi bisogni specifici. Alle risposte personalizzate da dargli, a come agire se si rinuncia ai protocolli standard, all’esistenza del malessere come richiesta di intervento. Il mio pensiero dunque non va a quei figli messi sul vetrino per cercare qualcosa che non c’è - li immagino la minoranza. Va piuttosto a tutti coloro i quali vengono ignorati per il bisogno dei genitori di negare che ci sia qualcosa di cui farsi carico.

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