Meloni e l’anno dell’equilibrio instabile

C’è la voglia di sparigliare, attaccando l’ennesimo sciopero di venerdì, ma c’è anche la paura — e l’ossessione — di perdere consenso. Giorgia Meloni non si fida dei valori ancora alti nei sondaggi: teme che non siano blindati come sembrano e che il referendum sulla giustizia, nonostante gli sforzi di non politicizzarlo, alla fine diventi un voto sul governo. Una sorta di inizio di campagna elettorale, in un Paese che non cresce e dove il tema sociale si fa sempre più complesso. È il paradosso del potere in tempi di sondaggi: più il consenso appare granitico, più cresce la paura di perderlo. Meloni vive così il successo come una forma di fragilità, la popolarità come una lama a doppio taglio. In politica, il consenso è una risorsa ma anche un debito: quello che si contrae con le aspettative di chi vota. Ecco perché la premier viene descritta come ossessionata dalla necessità di provare a dare risposte — o almeno far percepire questo — su tre ambiti che per gli italiani sono oggi un punto critico: salari, sanità e sicurezza. L’incubo della presidente del Consiglio è che alla fine il consenso si sbricioli nelle urne, di fronte a un caro vita che non molla la presa, e che le preferenze verso di lei siano più il frutto della mancanza di una leadership alternativa che non di un reale favore per il lavoro svolto. Una dinamica che troverebbe riscontro nei sondaggi: il consenso di Meloni è alto e stabile, ma mortificato da un giudizio negativo sull’operato del governo. Una consapevolezza che spiegherebbe la scelta di una manovra “al minimo” per quest’anno — appena 18 miliardi — che dovrebbe garantire l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione europea, tenendosi spazi di intervento più ampi per quella del 2027, quando, salvo sorprese, cadranno le elezioni. Ma il problema, più che nella manovra, è nel contesto. Meloni non si trova a governare solo una congiuntura negativa, ma una stagnazione strutturale. L’Italia cresce da vent’anni meno dei suoi partner, spende più in interessi che in scuola e ricerca e ha una produttività ferma. In questo scenario ogni manovra appare debole perché non può che esserlo: è il riflesso di un Paese che non riesce più a correre. Il rischio è che l’Italia arrivi a fine legislatura già logorata dall’immobilismo, con un’economia ferma e una società sempre più divisa tra chi ha tutele e chi ne è rimasto fuori. Ecco perché la vera risorsa che la premier prova a gestire non sono tanto i miliardi della manovra, ma il tempo. Prendere fiato oggi per poter spendere domani. La strategia pensata a Palazzo Chigi, dall’inner circle della presidente del Consiglio, non ha fatto sconti a nessuno. Tutti i ministri, nessuno escluso, hanno dovuto fare i conti con tagli e ridimensionamenti giudicati eccessivi. Ma, nonostante questo, la legge di bilancio resta uno strumento di continuità, non di svolta. E questa continuità rischia di trasformarsi in stallo. Anche nella maggioranza il malumore cresce: la Lega chiede di liberare risorse per il Nord produttivo, Forza Italia teme di perdere peso politico e Fratelli d’Italia si trova nella posizione scomoda di difendere l’esistente. È una coalizione che regge sul riflesso della forza della premier, ma che inizia a mostrare le prime incrinature. Il che, come si diceva, non riduce le preoccupazioni neppure di chi questa linea l’ha concepita. Meloni ha chiesto ai suoi di pensare a misure che restituiscano agli italiani la percezione di sicurezza. È convinta che questo sia un tema strategico per non cadere in disgrazia, e che sia gestibile non solo attraverso investimenti e misure, ma anche mediante una comunicazione più attenta ed efficace. La sicurezza diventa così un linguaggio politico più che una politica pubblica. Non basta ridurre i reati: serve raccontare che si può reagire. In questo senso vanno letti i post sulla legittima difesa, sulla liceità di sparare se qualcuno ti entra in casa o in negozio: un principio molto normativo e poco costoso che il governo vuole cavalcare. L’altro elemento critico resta la sanità. Al netto delle diatribe sugli stanziamenti — ridotti secondo l’opposizione, aumentati secondo il governo — la premier è consapevole che le cose non vanno bene. Gli ultimi dati dell’Istat sugli italiani che rinunciano a curarsi sono tanto drammatici nella sostanza quanto pericolosi per chi guida il Paese. Su questo, su una sanità solo per chi se la può permettere, non solo si può montare una campagna elettorale pericolosa, ma si può innescare anche una protesta dei cittadini dagli esiti imprevedibili. Per non parlare di salari e pensioni: stipendi che non crescono, pensioni inchiodate al palo, inflazione che rende complicato arrivare a fine mese. Anche dalla finanziaria in gestazione non arrivano risposte significative: pochi euro per le pensioni, benefici sulle retribuzioni che — come denunciato da Bankitalia — toccano i redditi medio-alti ma non quelli di chi ogni giorno si sposta in autobus. Ne esce la fotografia di uno Stato sempre più distante dai bisogni elementari — curarsi, lavorare, sentirsi protetti — e di una politica costretta a rincorrere la percezione del disagio più che le cause. È qui che si apre la frattura sociale più profonda: tra chi può contare su reti di sicurezza private e chi vive in territori dove lo Stato arretra, dove l’ambulatorio chiude, il treno non passa, la scuola perde docenti. È una distanza che scava lentamente una nuova geografia del potere, in cui la periferia sociale rischia di diventare anche periferia politica. Un quadro che preoccupa Palazzo Chigi, perché in questa situazione — ammesso e non concesso che il contesto internazionale non provochi ulteriori scosse — bisognerà convivere per un altro anno. Fino a quando, con la manovra a ridosso delle elezioni, si potrà promettere qualcosa di più. Ma la promessa non basterà se nel frattempo la frattura tra garantiti e vulnerabili continuerà ad allargarsi. È su quel terreno, più che nei sondaggi, che si misurerà la tenuta del governo nei mesi che precedono il 2027. Da qui si intuisce che l’anno che attende l’esecutivo non sarà facile: il referendum e lo scontro con i magistrati non semplificano il quadro. Perché — Meloni di questo è convinta — una sconfitta sulla giustizia, al di là delle dichiarazioni di facciata, sarebbe comunque una sua sconfitta. In primis, di quel mito dell’invincibilità e del consenso di ferro che ha retto fino a oggi — e che ora rischia di piegarsi sotto il peso dell’immobilismo.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Meloni e l’anno dell’equilibrio instabile

Andrea Bonini