La “tassa buona” di Meloni: così le banche pagano la manovra

Un po’ come il debito buono e il debito cattivo di Mario Draghi, per Giorgia Meloni esistono tasse buone e tasse cattive. Tra le prime annovera quella alle banche che, seppur ribattezzata “contributo di solidarietà”, è a tutti gli effetti una tassa. La premier non ha mollato sul rinnovo e sul potenziamento di un esborso che aveva addirittura visto il leader di Forza Italia Antonio Tajani dichiarare di essere pronto a mettersi di traverso, tanto in Consiglio dei ministri quanto in Parlamento. Tajani, nei suoi plurimi interventi quotidiani alla stampa, è solito rilasciare dichiarazioni roboanti che si sgonfiano già a quello successivo. Nessuno ha mai preso sul serio l’ipotesi di una crisi di governo sulla manovra — perché di questo, se avessimo dato retta alle parole del ministro degli Esteri, si sarebbe trattato — ma il suo richiamo era interessante per misurare quanto la difesa degli interessi della famiglia Berlusconi, impegnata con Mediolanum, avesse presa sulla premier. Il risultato è stato nullo. Meloni è andata avanti sulla sua strada. La tassa è arrivata, con la Lega — complice Fratelli d’Italia — che politicamente può dichiarare di aver avuto la meglio sul titolare della Farnesina. Tutto questo diventa interessante perché, al netto delle valutazioni di merito — che vedremo tra poco — segna come Giorgia Meloni sia poco interessata, o se vogliamo usare un termine più soft, poco attenta ad ascoltare gli appelli dei Berlusconi. Vale sui diritti civili, vale sulle banche, in attesa di capire — e forse di neutralizzare — un’eventuale discesa in campo di Pier Silvio. Tornando invece al discorso sulle tasse buone e cattive, Meloni ha deciso di spingere sulle banche per due motivi. Il primo, perché non ci sono soldi e da qualche parte andavano presi. Il secondo, perché le banche sono quelle che più di tutti hanno incassato beneficio negli ultimi anni e mettere le mani nelle loro tasche non solo viene considerato necessario e utile, ma anche popolare e vantaggioso agli occhi dell’opinione pubblica. Le politiche della Bce hanno regalato alle banche guadagni record, grazie a margini d’interesse cresciuti a doppia cifra ma senza benefici per i clienti. Profitti determinati dal contesto più che dal merito. La linea di Palazzo Chigi — come abbiamo già detto, a corto di risorse — è che sia giusto contribuire di più al bene del Paese. Anche stavolta il contributo ha una struttura tecnicamente complessa. Non si tratta di una tassa generica sugli utili: il prelievo del 27,5% scatta solo se le banche decidono di svincolare le riserve vincolate costituite lo scorso anno per evitare l’imposta straordinaria del 40% sugli extraprofitti. In pratica, gli istituti che vorranno distribuire quei profitti agli azionisti dovranno prima versare la quota dovuta al fisco. Chi invece le manterrà a riserva non pagherà. È un meccanismo che, nelle intenzioni del governo, colpisce l’eccesso senza distorcere il mercato. Parallelamente, la manovra introduce anche un aumento dell’Irap, che si somma a un’Ires già più alta rispetto alle imprese ordinarie. È qui che si apre il dibattito sulla correttezza del prelievo: è giusto tassare di più un settore che ha guadagnato in gran parte per effetto di scelte esterne e non per merito proprio? Per Palazzo Chigi la risposta è sì. Il contributo viene descritto come un atto di riequilibrio, non di punizione: “È una forma di redistribuzione straordinaria in un sistema in cui lo Stato — quando c’è bisogno — garantisce i depositi, sostiene la liquidità e, nei momenti di crisi, fa di tutto per salvare gli istituti”. “Chi gode anche di stabilità pubblica — ragiona la premier — può partecipare di più al bene comune.” Gli economisti più ortodossi temono che una tassa ricorrente freni il credito. Meloni ha scelto una via intermedia. In termini comparativi, l’Italia si allinea alle misure introdotte in altri Paesi europei, come la Spagna, che ha previsto un prelievo temporaneo del 4,8% sui margini bancari. La differenza è che il modello italiano colpisce asset già contabilizzati, riducendo il rischio di contenziosi. “Le banche hanno macinato utili record — spiega un funzionario del Mef — che non si sono visti sui conti correnti degli italiani.” Ed è questa la chiave politica dell’intervento: in tempo di sacrifici generalizzati, anche chi ha beneficiato della crisi deve fare la sua parte. Ora resta da capire se l’esecutivo riuscirà a tradurre queste risorse in qualche sgravio per i cittadini e non semplicemente per limitare il deficit e ridurre il debito. La manovra da 18,6 miliardi in cui si inserisce questa misura resta comunque modesta per dimensioni e impatto. Gran parte delle risorse è destinata a prorogare misure esistenti, dal taglio del cuneo fiscale agli incentivi per il lavoro, mentre poco spazio rimane per la crescita o per nuove politiche industriali. È una legge di bilancio prudente, coerente con i vincoli europei ma priva di una spinta economica vera. È una manovra che difende la stabilità finanziaria più che rilanciare la crescita. E questo è un problema, perché il prelievo alle banche — spogliato del suo significato politico — mostra una carenza di risorse figlia di un sistema economico in affanno. È una tassa che per molti è giusta, vista la sproporzione dei guadagni bancari, e che per il governo diventa insieme strumento contabile e messaggio politico. E in un Paese dove la fiducia si misura anche nella percezione di equità, può bastare per spiegare perché, tra le tasse, Meloni abbia deciso che alcune — come questa — possono perfino farle comodo. Resta però il problema di fondo che l’Italia — da più di dieci anni a questa parte — non è in grado di risolvere: generare una crescita vera, costante e continua che produca lavoro e risorse reali, in grado di far abbassare le tasse, invece che inventarne di nuove.

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Andrea Bonini