La caduta del governo Draghi merita una lettura psicologica degli atteggiamenti che l'hanno provocata e sulla perenne condizione di distacco e di adolescenza che caratterizza il nostro rapporto con la politica, un ambito che indirizza destini personali, familiari, collettivi.
LO SPECIALE SULLA CRISI DI GOVERNO
Sebbene abituati a variabilità, non solo climatiche, sempre più sorprendenti, difficile negare che mercoledì 20 luglio, all’interno delle Istituzioni si è verificato una sorta di trauma civile che molte persone faticheranno ad elaborare, ma che tuttavia potrebbe aiutare a riflettere sulla perenne condizione di distacco e di adolescenza che caratterizza il nostro rapporto con la politica, un ambito che indirizza destini personali, familiari, collettivi.
Per la medesima ragione -l’influenza decisiva sulla vita delle persone- la politica dovrebbe diventare un terreno di studio privilegiato della psicologia, non perché si debba psicologizzare tutto o perché la psicologia vanti una particolare autorevolezza, il fatto è che la politica vive un intreccio assoluto con l’interesse generale. In questo senso, il nesso tra politica e psicologia, o addirittura con la psichiatria, esiste in modo naturale ed è stato invocato, ad esempio, da più parti quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Anche noi ne abbiamo scritto qui, solo per smentire l’ipotesi che il presidente russo fosse pazzo, una spiegazione emotiva ma anche un alibi, che decretava la fine di ogni discussione sul personaggio, incartato e archiviato. Peccato, però, che Vladimir Putin pazzo non lo sia affatto, si tratta di un tiranno con un passato di grande fragilità, probabile vittima di atti di bullismo, animato da una lucida volontà di potenza compensatoria, che appaga soggiogando un intero popolo e minacciandone altri.
Conoscersi e conoscere
Avevamo scelto, allora come in altri casi, di svolgere il nostro compito restando sul territorio proprio della psicologia, ossia l’analisi biografica e la spiegazione, per quanto possibile, dei comportamenti di quell’uomo, legandoli al suo passato ma anche alle finzioni e ai finalismi conseguenti, sbagliati proprio perché figli di eventi interpretati soggettivamente e in modo distorto. Se chi fa politica, ad esempio, avesse più chiaro il terreno relazionale in cui si muove, se imparasse a conoscere gli interlocutori invece di tirare a indovinare o a etichettare per categorie ideologiche, forse le distanze tra i paesi si accorcerebbero.
Conoscersi e conoscere, quando si esercitano gravi responsabilità, è un riparo per tutti. Questo dovrebbe essere il compito della psicologia e di chi la pratica, studiare e rendere chiare le circostanze, fornire elementi di valutazione attendibili, rendere leggibile la trama presente nell’azione di chi fa politica di mestiere, un compito necessario perché permette di fornire ai cittadini la possibilità di compiere scelte calibrate con maggiore cura, nell’interesse di tutti.
Questo sarebbe utile e necessario, di certo, invece, noi psicologi non facciamo bella figura quando diventiamo testimoni ideologici di una parte, presenziando ai momenti celebrativi e piegando, davanti a una platea plaudente, ogni ragionamento teorico alla causa del leader, come facevano i cortigiani un tempo per compiacere il padrone di casa.
Un’applicazione “professionale” alla politica, dunque, è necessaria da parte della psicologia, in quanto parte integrante della sua responsabilità sociale. Non dimentichiamo, infatti, che quasi tutto ciò che accade nel Pianeta scaturisce dalla politica, ogni cosa nella vita di miliardi di persone dipende da chi comanda, dalle scelte che fa, da come investe le risorse, dalla sua moralità.
Mercoledì, casualmente, era anche l’anniversario del fallito attentato a un celebre, sebbene nefasto, politico, Adolf Hitler, risoltosi con l’annientamento dei congiurati.
Se fosse andato a segno si sarebbero risparmiate milioni di vita innocenti.
La politica emotiva
La giornata di mercoledì, per le modalità prima che per l’esito, è stata una catastrofe, avendo messo sotto i nostri occhi un quadro degradato, immerso in un pericoloso brodo di populismo diffuso. Un comportamento, il populismo, che purtroppo si liquida con colpevole superficialità, scambiandolo per una delle tante ideologie, me non è di questo che si tratta, se lo fosse non sarebbe trasversale, sebbene la densità della sua presenza non sia affatto omogenea negli schieramenti, questo è onesto dirlo. Oggi il populismo, una vera scura alle radici delle comunità, che pure lo premiano, è una cifra generale della comunicazione politica, accelerata dalla cultura dei social network, che richiede posizionamenti repentini e mutevoli, prese di posizioni subito smentite, viraggi che alimentano la confusione e spiazzano anche i commentatori più scafati, che si ostinano a leggere con criteri razionali nelle pieghe di una politica emotiva che tende a psichiatrizazarsi, schiacciata dalle storie personali dei protagonisti cui si accompagnano tempeste emotive e irrazionali. Difficile sbarrare preventivamente il passo ai soggetti inadatti, ma vorrei ricordare la lunga teoria di controllo cui è sottoposto un pilota di aerei civili, ossia una persona cui vengono affidate 200 vite per volta, meccanismi di selezione cui i politici, che invece si occupano di milioni di vite, non devono sottostare.
La caramella dei pedofili
Il populismo è una tecnica manipolatoria di seduzione dell’elettorato, che somiglia in modo impressionante alla caramella dei pedofili. Il populismo ti accarezza, ti parla, come se si rivolgesse solo a te, collocandoti all’interno di uno dei tanti insiemi omogenei che cerca di espugnare, enunciando il tuo problema -le bollette, le tasse, la salute, il lavoro, le paure etniche, i rapidi cambiamenti sociali e culturali-, indignandosi teatralmente per la tua sofferenza e ponendosi come solutore affettuoso. Tale atteggiamento, sebbene precisa una parte politica lo usi con innegabile maestria, contamina in modo variabile tutti gli schieramenti, e sta diventando un problema planetario, perché si autoalimenta tramite una forte circolarità, grottesca e pericolosa. Infatti, esso non mira a risolvere i problemi ma a catturare gratitudine chiamandoli per nome e imprecando contro di essi, questo determina inazione e incrementa il disagio delle persone e delle comunità che, così piegate, diventano ancora più sensibili agli espedienti emotivi tipici del populismo.
Questi cicli, che oramai si ripetono con regolarità crescente, impoveriscono i sistemi e necessitano periodicamente, proprio perché infiltrati di populismo e attori di basso valore- di soggetti dotati di competenze fuori scala, che all’inizio producono reazione entusiaste, perché il nuovo arrivato riparerà il sistema, che tuttavia deve rimanere quello di prima.
Quando la regola dell’invarianza viene violata, il sistema entra in allarme e comincia la demolizione sistematica dell’intruso, perché la sua presenza troppo competente sfasa i valori, modifica gli standard, rischiando di mettere fuori gioco la parte meno qualificata.
Per queste ragioni, ciò che è accaduto mercoledì 20 luglio, non è affatto strano, era già accaduto e accadrà ancora. Si tratta solo di capire quante repliche potremo ancora permetterci.
Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).
È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/