A meno di due mesi dall’insediamento di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio, è legittimo chiedersi: quali potranno essere le conseguenze dell’attuale inedita fase politica sui partiti politici italiani? Dal Pd al Movimento 5 Stelle, dalla Lega ai Fratelli d’Italia, lo storico e sociologo francese Marc Lazar analizza le evoluzioni dei principali attori in gioco in queste settimane. Poi, lo studioso elabora alcuni scenari per il futuro di medio-lungo termine
Il fatto che Mario Draghi sia oggi Presidente del Consiglio dei Ministri è, sotto molti punti di vista, una sconfitta per gli attuali partiti politici che non sono stati esattamente “protagonisti” del suo ingresso a Palazzo Chigi. Allo stesso tempo il ruolo assunto da Draghi non è una sconfitta di tutte le istituzioni democratiche italiane, considerato per esempio il ruolo propulsivo giocato in questo frangente dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Di fronte al perdurare dello stallo del precedente governo Conte-bis, dal Quirinale si è deciso infatti che “la ricreazione era finita” e si è proposta questa soluzione di indiscutibile valore, accettata in un secondo momento dai partiti. Dopo nemmeno due mesi dall’insediamento di Draghi a Palazzo Chigi, è legittimo chiedersi: quali saranno le conseguenze dell’attuale inedita fase politica sui partiti politici italiani? Di seguito, alcune prime considerazioni.
I partiti politici italiani nell’era Draghi
Il Partito democratico è stato tra i più restii ad abbandonare lo schema del governo Conte-bis, ma il passaggio di testimone avvenuto alla sua guida – da Nicola Zingaretti a Enrico Letta – spinge ora il Nazareno ad assumere il ruolo di “pilastro” del governo Draghi. Un ruolo facilitato dai rapporti personali che intercorrono tra Letta e Draghi, eppure non privo di sfide. Ne sottolineo due. La prima sfida: oggi per il Pd si pone un problema identitario, più prosaicamente la capacità di distinguere la propria offerta elettorale da quella degli altri partiti. Da qui la scelta di Letta di proporre riforme come l’ampliamento del diritto di voto ai 16enni o lo ius soli, insistendo allo stesso tempo sul proprio connotato originariamente “europeista” e sfidando i partiti un tempo euroscettici (Lega e Movimento 5 Stelle in primis) a essere coerenti con la propria svolta a sostegno di un esecutivo europeista. La seconda sfida consiste nel fatto che finora il Pd è stato un po’ silente sul fronte sociale, non avanzando proposte di rilievo su un tema dirimente nel pieno di una profonda crisi economica. Atteggiamento quantomeno curioso per un partito di centro-sinistra.
Il Movimento 5 Stelle, con la sua svolta euro-compatibile e responsabile, offre l’occasione per riflessioni più generali sul dilemma dei partiti populisti una volta che arrivano al potere. Questi ultimi o cercano di sovvertire il sistema oppure, più comunemente, cominciano un processo di istituzionalizzazione sempre più pronunciato. Il Movimento 5 Stelle è avviato sulla seconda strada. Il che mi fa dire che troppo spesso gli analisti italiani lamentano la “debolezza” della democrazia italiana, mentre da osservatore francese e un po’ esterno noto – anche in questo caso – una notevole capacità del vostro sistema di attutire e assorbire le forze di protesta. Fu così col Partito Comunista Italiano negli anni 70 e 80 dello scorso secolo, sta accadendo di nuovo col Movimento 5 Stelle.
La decisione della Lega di Matteo Salvini di sostenere il governo Draghi ha sorpreso molti osservatori. Eppure, oltre al ragionamento già fatto per il Movimento 5 Stelle, non avremmo mai dovuto dimenticare cosa c’è nel cuore dell’elettorato della Lega: un mondo di produttori, imprenditori o Partite Iva che siano, con alcuni bisogni ben definiti, tra i quali non rientra il caos sistemico. Da qui l’effetto pendolo cui assistiamo oggi, cioè la Lega “di lotta e di governo”, altro scenario già visto in altre stagioni della storia politica italiana. Ovviamente la posizione di Salvini e della leadership leghista è resa più complicata dalla scelta di Fratelli d’Italia di rimanere all’opposizione e di attirare – almeno in potenza – voti di protesta.
A proposito di Fratelli d’Italia, osservo come la sua leader Giorgia Meloni stia insistendo molto su un argomento, quello secondo il quale “in ogni democrazia che si rispetti c’è bisogno di una opposizione, e Fratelli d’Italia si candida a ricoprire questo ruolo di opposizione”. Si tratta dell’ennesima prova del fatto che i movimenti anti-establishment contemporanei, a differenza dei populisti di una volta, non prendono mai di petto la democrazia, ma si presentano come i migliori alleati della stessa. Fratelli d’Italia rientra perfettamente in questo modello, così come Marine Le Pen in Francia.
Scenari per il post-Draghi
Se le considerazioni svolte finora valgono per l’oggi, o al massimo per le settimane a venire, cosa accadrà invece nei prossimi mesi e anni? Difficile dirlo, ovviamente, visto che l’Italia ci ha abituato a essere un “laboratorio politico” decisivo ma allo stesso tempo spiazzante. Lasciatemi però azzardare alcune “ipotesi di ricerca”, da verificare o falsificare col passare del tempo.
1. Il Presidente del Consiglio Draghi propone uno stile politico definito, caratterizzato da una comunicazione ridotta all’essenziale e da un manifesto ricorso all’expertise e alle conoscenze tecniche. I partiti politici, forse, potrebbero scegliere di emularlo. Il ritorno di Enrico Letta alla guida del Pd, anche sull’onda della vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti, potrebbe segnalare che sta volgendo al termine la stagione dello stile politico populista. Uno stile che aveva coinvolto anche politici non populisti, come l’ex segretario del Pd Matteo Renzi, che pure aveva usato toni populisti.
2. La crisi sanitaria e la crisi economica che le è seguita potrebbero farci scoprire, nei prossimi anni, una opinione pubblica meno desiderosa di opzioni politiche urlate, troppo schematiche o semplificatrici. Abbiamo detto dell’evoluzione, non ancora definitiva, della Lega di Salvini. Ma anche in Francia la leader populista per eccellenza, Marine Le Pen, ha mutato in modo radicale la propria strategia, abbandonando certi obiettivi estremi come l’uscita dall’euro e appellandosi all’unità nazionale, coi sondaggi che sembrano premiarla in vista delle prossime elezioni presidenziali.
3. In Italia la pandemia ha colpito più duramente che in altri Paesi europei. Gli effetti traumatici di ciò, per il momento, alimentano un inusitato livello di fiducia nelle istituzioni (non nei politici). È il segnale che la “ricerca di protezione” sarà il sentimento prevalente dei prossimi mesi e anni. Gli attori politici dovranno tenerne conto. Se d’altronde la situazione si aggravasse ancora, per esempio per il fallimento della campagna vaccinale o per un degrado della situazione sociale, i movimenti anti-establishment potrebbero beneficiare di un rafforzamento altrettanto marcato dei sentimenti di protesta.
4. La pandemia, almeno in Europa, sembra investire anche il ruolo dei tecnici e degli esperti generalmente intesi. Questi ultimi, per quanto litigiosi e in disaccordo fra loro su tanti dossier, emergono comunque come un punto di riferimento in momenti davvero critici. Si pensi soltanto al risultato straordinario della ricerca scientifica che ha portato all’invenzione di un vaccino anti Covid-19 nell’arco di un anno. L’opinione pubblica potrebbe prenderne nota, abbandonando certe critiche aprioristiche rivolte qualche anno fa agli esperti. Quanto ai tecnici, anche loro in parte potrebbero risultare ulteriormente cambiati da questa crisi. Draghi è diverso da Mario Monti non solo per la congiuntura economica che deve affrontare (in sintesi: meno austerity, più Recovery Plan), ma anche perché la sua competenza tecnica va a braccetto con una profonda sensibilità politica. In modo similare, la stessa componente tecnocratica dell’Unione europea – nel complesso – sembra aver mutato toni (e in parte policies) rispetto agli anni della crisi del debito sovrano.