Il pil, Bruxelles e le vere difficoltà del governo

Politica

Massimo Leoni

La Tav, il caso Diciotti, il Venezuela. Ma le divisioni all'interno dell'esecutivo sono poca cosa rispetto al problema di una stagnazione del pil nel 2019. Che non si risolverà consultando il contratto di governo. 

I “numerini” sul pil rischiano di rendere inutili le tecniche di compromesso con le quali il governo gialloverde ha finora sciolto tutti i nodi che sono venuti al pettine di una maggioranza inedita quanto poco omogenea. Le anticipazioni che arrivano da Bruxelles sulla crescita (?) italiana stimata dalla commissione sono severe e preoccupanti. Un +0,2%  che vale un quinto di quanto previsto dal governo e sul quale si fonda la sostenibilità dell’intera manovra di politica economica per l’anno in corso. Le strategie per mettere insieme ciò che insieme non sta, sempre più determinate dalle scadenze elettorali e dai contrapposti interessi di Lega e Cinquestelle, sul punto avranno scarsa importanza. Quella crescita così scarsa, se sarà confermata, esigerà una risposta unitaria, tempestiva, coerente. E, quindi, difficile. Il numerino è una cosa che la dialettica, anche la più abile, non può tirare a vantaggio di una parte. E’ un problema – e un danno – per i gialli, per i verdi e per l’Italia.

I numerini, da soli, renderebbero inevitabile una manovra correttiva di metà anno. Sempre che si voglia mantenere il rapporto tra deficit e pil al 2,04%. Non è un’opinione, è matematica. Però… davvero la Commissione europea imporrà all’Italia la correzione? E quale Commissione? E quando? Le risposte a queste domande sono fondamentali per il futuro del governo. E nessuna è scontata. La prima, per esempio. A guardare i numeri, se confermati, non dovrebbe esserci dubbio. Ma la condizione di quasi recessione renderebbe la manovra italiana indiscutibilmente anticiclica, pur con strumenti la cui efficacia è – almeno – controversa. E il dogma europeo (anche se si applica con molta difficoltà ai paesi ad alto debito) è favorevole alle manovre anticicliche, cioè espansive quando il ciclo economico è negativo. Chi si assumerà la responsabilità di chiedere provvedimenti restrittivi? Chi proverà ad esercitare un potere formale che però la Commissione uscente di certo non possiede nella sostanza e quella futura potrebbe ritenere addirittura contrario al suo mandato? Quindi, la seconda domanda: quale Commissione. Gli usi direbbero che le indicazioni per la correzione dovrebbero venire da questa, che resta in carica fino a ottobre. Ma la stagione elettorale sembra allontanare la possibilità. La terza domanda, quando. Appena la nuova Commissione si insedia? E cosa è meglio per il governo italiano? Difficile dirlo.

Però: proviamo a ragionare. Se le richieste di Bruxelles arrivassero in autunno, vorrà dire che la barca del deficit andrà raddrizzata con il prossimo esercizio di bilancio. Tempo in più, ma non necessariamente tempo utile. Perché nella manovra 2020 ci sono già da recuperare 23 miliardi di clausola di salvaguardia, pena un forte aumento dell’Iva. Se si aggiungono i miliardi che mancano al 2019, si fa davvero dura. Se, invece, le prescrizioni europee arrivano prima, sono i provvedimenti bandiera del governo a essere a rischio. Perché essi stesso oggetto di una clausola di salvaguardia, interna alla manovra: se i conti non tornano – è scritto – bisogna rivedere la spesa prevista per reddito di cittadinanza e quota cento. E, se necessario, rivederne i criteri. Ci azzardiamo a dire che questo non potrà in ogni caso avvenire prima delle elezioni europee. Ma dopo, bisognerà rendere omaggio alla realtà più che alle logiche elettorali.

Tutto questo preoccupa (o dovrebbe preoccupare) il governo. Più della Tav, più dell’affare Diciotti, più del Venezuela.  

Consigli per l'ascolto: "Good Times Bad Times", Led Zeppelin

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