“Ho molti amici gay”: gli attacchi omofobi della politica italiana

Politica

Un saggio di Filippo Maria Battaglia racconta la storia della discriminazione contro gli omosessuali in politica dal dopoguerra a oggi. Coinvolgendo tutti i partiti e gran parte dei loro esponenti, da Massimo D’Alema a Matteo Salvini. L’estratto 

È un grido di dolore acuto, quello che si leva in un pomeriggio di ottobre del 2004. Proviene dal ministro degli Italiani nel mondo, l’ex repubblichino Mirko Tremaglia, ed è racchiuso in sette parole su carta intestata del governo italiano: «Povera Europa: i culattoni sono la maggioranza».

Lo scarno comunicato di Tremaglia segue di qualche ora la bocciatura della candidatura del suo collega di governo, l’udc Rocco Buttiglione, a commissario europeo. Il parlamento di Bruxelles, per due volte, gli ha detto che non ha le credenziali per fare il responsabile di giustizia, sicurezza e libertà della Ue, né per ricoprire l’incarico di vicepresidente della commissione: il voto non è vincolante ma politicamente è pesantissimo, e infatti risulterà fatale per la nomina. Buttiglione cade per alcune frasi sui diritti gay; quella in cui affermava di considerare «il comportamento degli omosessuali tecnicamente indice di disordine morale», per gli europarlamentari, è la più clamorosa. Non la pensa così Tremaglia. Secondo lui, l’altolà di Bruxelles, oltre a essere una palese ingiustizia, è la prova definitiva che la lobby gay ha ormai soggiogato l’Europa, costringendo tutti a obbedire alla «logica omosex».

È una convinzione, questa, che la destra italiana cova da almeno tre decenni. A dirlo esplicitamente in Aula per la prima volta, il 10 marzo 1976, è il deputato missino Enzo Trantino. Rispetto a ventotto anni dopo cambiano il contesto (siamo in pieno compromesso storico) e il destinatario dell’attacco (al posto di Bruxelles, il Pci di Berlinguer), ma il senso è più o meno lo stesso: dopo divorzio, droga e aborto, «mancherà l’ultimo traguardo, quello dell’omosessualità, e sarà questo o un altro parlamento ad imporre l’omosessualità come obbligo, non perdonando chi non ha la fortuna di esserlo». Ad ascoltare a Montecitorio, in quel mercoledì di fine inverno di metà anni settanta, c’è anche il neoeletto Mirko Tremaglia. Non è il solo a condividerlo. La pensa come lui, ad esempio, l’ultimo segretario del suo partito, Gianfranco Fini: «Gli omosessuali non possono pretendere di essere considerati come se i diversi, alla fine, siano quelli che hanno gusti normali», dice qualche anno dopo: «Non possiamo accettare un’assurda equiparazione». Fini cambierà idea, non così gran parte dei suoi colonnelli. «In questo paese i gay non si possono attaccare», si lamenta nel febbraio 2012 il senatore pdl Ciarrapico, «in Italia oggi ti devono piacere per forza i gay, a me però piacciono le donne». Negli stessi giorni, Romano La Russa, fratello di Ignazio ed europarlamentare di An, sostiene che «i gay sono una specie di setta, di massoneria».

Posizioni moderate, se paragonate alle uscite dei suoi compagni di governo (o di coalizione), piene zeppe di espressioni come «dittatura», «regime» o «lobby» omosessuale. Dove la parola lobby, ovviamente, non ha niente a che fare con l’accezione anglosassone di un gruppo di persone legate da interessi comuni e in grado di esercitare legittime pressioni sul potere politico per ottenere provvedimenti a proprio favore. Piuttosto, sta a indicare un’oscura setta, torbida e malmostosa, di impuniti e privilegiati. «I frammassoni, i cappuccioni e i loro soci di sinistra», li chiama per esempio il leader della Lega Umberto Bossi. E un altro eurodeputato del suo partito, Gianluca Buonanno, si fa carico di essere più esplicito: «In Europa vorrei far parte della lobby etero. Se uno è etero oramai è sempre più discriminato, passa per delinquente, se invece è gay va bene tutto». Sarebbero loro, gli omosessuali appunto, a voler imporre la fantomatica «teoria del gender», secondo cui «il sesso è solo una costruzione sociale e culturale». Una tesi inesistente dal punto di vista accademico e mai teorizzata dagli studi di genere, ma che viene agitata come spauracchio per combattere la «normalizzazione di quasi ogni comportamento» negando di fatto la libertà sessuale. «Troppo spesso, anche nelle nostre scuole – attacca Matteo Salvini – si vuole imporre un pensiero unico ai nostri figli».

 

«Perché perdere tempo a discutere le faccende di pochi?»

È l’esplicitazione di un concetto sostenuto da molti parlamentari: negli ultimi anni, i discriminati sono diventati oppressori, col sottotesto nemmeno troppo implicito che adesso, in quest’epoca di «dubbio relativismo», a finire sotto tiro e a essere in qualche modo minacciati siano gli etero. A fine anni novanta, Carlo Giovanardi aveva già esplicitato l’idea chiedendo all’allora ministra delle Pari opportunità Laura Balbo come mai, a Bologna, un corso di formazione venisse gestito dal Mit, il Movimento identità transessuale. Così – aveva denunciato – si discriminano gli etero proprio «in base alle scelte sessuali».

Il suo collega di maggioranza Lucio Malan sarà più netto quando scoprirà nel 2015 che due beni confiscati a Cosa Nostra sono stati assegnati all’Arcigay di Messina per realizzare un presidio di accoglienza per persone lgbt in difficoltà. «Dopo la mafia arrivano loro», tuonerà su Twitter, solidarizzando con chi sosteneva che la delibera fosse parte di un piano per la diffusione della fantomatica «ideologia omosessualista».
È un’opinione con cui anche il fronte cattolico insiste più volte. In prima fila c’è la senatrice teodem Paola Binetti. Che, intervenendo in difesa degli psichiatri cattolici impegnati a «guarire» gli omosessuali, dice: «Fino agli anni ottanta nei principali testi scientifici mondiali l’omosessualità era classificata come patologia, poi la lobby degli omosessuali è riuscita a farla cancellare. Ma le evidenze cliniche dimostrano il contrario».
È quella oscura lobby, secondo diversi parlamentari e militanti, a imporre poi all’opinione pubblica temi che non andrebbero in alcun modo considerati prioritari. «Perché perdere tempo a discutere delle faccende private di pochi?», si chiedono alcuni giovani militanti del Pci all’inizio degli anni ottanta, quando si inizia a discutere di discriminazione omosessuale. «I problemi sono ben altri: la crisi economica, i licenziamenti, il terrorismo, Craxi». Frasi e posizioni che, se giustificate col clima di chiusura sessuofobica degli anni del riflusso, diventano più difficilmente comprensibili trent’anni dopo, quando quella stessa generazione diventa classe dirigente. «È mai possibile che i problemi dell’Italia siano i Pacs e la Tav?», si domanda nel 2006 l’ex premier Massimo D’Alema mentre infuria il dibattito sui diritti civili. Prima di aggiungere, significativamente: «Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese».
Una posizione che in un decennio nel centrosinistra diverrà gradualmente residuale. Non impedendo tuttavia ai suoi più esuberanti rappresentanti diverse uscite sul tema: «La sinistra deve certo battersi per i diritti omo, ma se mette Luxuria capolista in Sicilia, fa folklore», dice nel 2006 Marco Rizzo, dei Comunisti italiani. Più tranchant Gabriele Cimadoro, deputato idv e cognato di Antonio Di Pietro: «Per fortuna noi eterosessuali siamo la maggioranza, loro una minoranza, altrimenti…».

Al centro e a destra, invece, le cose non saranno destinate a cambiare. Lo confermerà il dibattito sul ddl omofobia e quello sulle unioni civili. Nel 2007 l’udc Erminia Mazzoni, ad esempio, spiegherà che non serve una legge che preveda un’aggravante di pena contro le discriminazioni sull’orientamento sessuale, visto che «gli omosessuali sono già tutelati dall’ordinamento come tutti gli altri cittadini». Ma le frasi più insistenti arriveranno quando si discuterà il ddl Cirinnà. Dal Senato alla Camera saranno decine le dichiarazioni di esponenti pronti a giurare che garantire nel 2015 una tutela giuridica alle coppie dello stesso sesso, così come accade in quasi tutta Europa, sia solo un’urgenza di una ristretta e potentissima lobby. «Non è la priorità per il Paese», dirà per esempio il deputato di Scelta civica Gianfranco Librandi. «Con tutti i problemi che ha l’Italia, è davvero questa la priorità?», si chiederà il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta e subito dopo si domanderà: «Siamo tutti più poveri e Renzi considera prioritarie le unioni civili?». Parole al miele per Salvini, che definirà «spregevole che un presidente del Consiglio, invece di occuparsi del lavoro e del futuro di milioni di italiani, si preoccupi di qualcosa che riguarda una minoranza». Per Salvini, «naturalmente», quella minoranza merita «tutto il rispetto». Anche se poi, a vedere bene, questo rispetto non si capisce come si sostanzi in fatto di diritti e provvedimenti concreti.
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Tratto da Filippo Maria Battaglia, “Ho molti amici gay. La crociata omofoba della politica italiana” (Bollati Boringhieri, pp. 136, euro 11)

Filippo Maria Battaglia (Palermo, 1984), giornalista di «Sky TG24», vive a Milano. Con Bollati Boringhieri ha pubblicato: Bisogna saper perdere. Sconfitte, congiure e tradimenti in politica da De Gasperi a Renzi (con P. Volterra, 2016), Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (2015) e Lei non sa chi ero io! La nascita della Casta in Italia (2014).

È inoltre autore di: A sua insaputa. Autobiografia non autorizzata della seconda repubblica (con A. Giuffrè, 2013), I sommersi e i dannati. La scrittura dispersa e dimenticata nel ’900 italiano (2013). Ha curato diverse antologie giornalistiche, tra cui Scusi, lei si sente italiano? (con P. Di Paolo, 20103) e Professione reporter. Il giornalismo d’inchiesta nell’Italia del dopoguerra (con B. Benvenuto, 2008).

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