Referendum costituzionale, le sei principali ragioni del sì e del no

Politica

Valeria Valeriano

Dai costi al bicameralismo fino al rapporto tra Stato e Regioni, ecco alcuni degli argomenti sostenuti dai favorevoli e dai contrari al provvedimento. 

Il 4 dicembre gli italiani sono chiamati alle urne per il referendum costituzionale: con un o con un no devono decidere se approvare o respingere la riforma della nostra Carta che porta il nome di Maria Elena Boschi. Il provvedimento voluto dal governo Renzi ha già ottenuto il via libera di entrambe le Camere ma, non avendo raccolto abbastanza consensi in Parlamento, per entrare in vigore ha bisogno di avere l’ok degli elettori. I due schieramenti, quello dei favorevoli alla riforma e quello dei contrari, hanno dato vita a una campagna referendaria molto accesa. Ecco alcuni dei principali argomenti sostenuti dai due fronti.

Con la riforma si ridurranno i costi della politica?

 

SÌ. È una delle ragioni principali per cui il fronte del Sì chiede agli elettori di approvare la riforma. Questa riduzione, spiegano, avverrebbe grazie alla diminuzione del numero dei parlamentari (e degli staff) e ai risparmi sui loro stipendi (i senatori passerebbero da 315 a 95, più 5 nominati dal presidente della Repubblica, e non percepirebbero alcuna indennità); all’abolizione del Cnel (che ora conta 65 membri e costa circa 20 milioni all’anno) e delle province (che verrebbero eliminate dalla Costituzione); ai tetti alle indennità dei consiglieri regionali (non potrebbero percepire un’indennità più alta di quella del sindaco del capoluogo di regione e sarebbero vietati i rimborsi ai gruppi regionali).

NO. Secondo i sostenitori del No, con questi provvedimenti il risparmio sarebbe minimo. Sui numeri c’è un po’ d’incertezza. Il governo Renzi ha parlato di un risparmio complessivo di 500 milioni, ma la cifra è stata definita poco realistica da diversi commentatori. Sinistra italiana, ad esempio, ha calcolato un risparmio di 169 milioni di euro, altri (come la Ragioneria di Stato) di un decimo rispetto al numero indicato dal premier. I costi del Senato, continuano i sostenitori del No, sarebbero ridotti solo di un quinto (ai nuovi senatori, ad esempio, spetterebbe comunque un’indennità di trasferta) e anche l’abolizione del Cnel inciderebbe poco. Per quanto riguarda le province, poi, i dipendenti non verrebbero licenziati in blocco ma ridistribuiti. Si poteva risparmiare di più, dicono i contrari alla riforma, riducendo sia senatori sia deputati (sono 630) sia membri del governo (64 tra ministri, viceministri e sottosegretari) e tagliando gli stipendi di tutti.

 

L’iter legislativo sarà semplificato?

 

SÌ. Chi è a favore della riforma sostiene che essa garantirebbe leggi in tempi più rapidi. Come? Cambiando l’iter legislativo, che ora è lento e macchinoso. Le proposte di legge, spiegano, non pendolerebbero più all’infinito tra Camera e Senato in attesa di arrivare ad un testo condiviso. Tranne che per alcune materie, sarebbe la Camera ad approvare le leggi e il Senato avrebbe al massimo 40 giorni per discutere e proporre modifiche: i deputati potrebbero anche non accoglierle e la decisione finale spetterebbe a loro. Il governo avrebbe anche una via preferenziale per l’esame di alcuni disegni di legge importanti: il cosiddetto "voto a data certa".

NO. Il procedimento legislativo non sarebbe più rapido, dice il fronte del No, ma più confuso. La riforma, spiegano, non semplificherebbe il processo di produzione delle leggi ma lo complicherebbe: le norme che regolano il nuovo Senato, infatti, produrrebbero almeno 7 o 10 procedimenti legislativi differenti. E se i due rami del Parlamento non si accordassero sul procedimento da seguire o non fossero rispettati i tempi previsti? Chi dirimerà i conflitti tra i presidenti di Camera e Senato? Su alcune materie, inoltre, rimarrebbe il bicameralismo perfetto e, secondo i sostenitori del No, sarebbe certo un incremento dei ricorsi alla Corte costituzionale sulla divisione delle competenze tra le due Camere. Per i contrari, poi, il "voto a data certa" rappresenta uno degli elementi che confermano il tentativo del governo di esautorare il Parlamento dal suo ruolo.

È il superamento del bicameralismo perfetto (o paritario)?

 

SÌ. Finalmente, dicono i sostenitori del Sì al referendum, l’Italia smetterebbe di essere l’unico Paese in Europa in cui il Parlamento è composto da due Camere uguali, con gli stessi poteri e praticamente la stessa composizione. Il bicameralismo perfetto, sostengono, è lento e inadatto alla nostra epoca. Il suo superamento servirebbe per ridurre il costo degli apparati politici e rendere l’attività del Parlamento più rapida, efficace e tempestiva. Solo i deputati, ad esempio, darebbero la fiducia al Governo, mentre il Senato rappresenterebbe i bisogni di Comuni e Regioni. Questo, insieme alla nuova legge elettorale (l’Italicum, che ancora non è definitiva e sui cui il governo è disposto a trattare), secondo i sostenitori del Sì darebbe più stabilità all’esecutivo, in un Paese che ha visto susseguirsi 63 governi in 70 anni di Repubblica.

NO. Il bicameralismo paritario, sottolinea il fronte del No, non scomparirebbe ma rimarrebbe su alcuni temi creando conflitti tra Stato e Regioni e tra Camera e Senato. La riforma, quindi, renderebbe il nostro sistema più confuso. I sostenitori del No, poi, ritengono non sia vero che il bicameralismo paritario non permetta di legiferare. Non solo. Mettendo insieme gli effetti della riforma Boschi e dell’Italicum, i contrari temono possa esserci il pericolo di “un uomo solo al comando”. La Costituzione repubblicana, dicono, fu scritta proprio per evitare situazioni simili. Con un Senato ridotto e depotenziato e una Camera dominata dalla maggioranza (grazie al grande premio previsto dalla nuova legge elettorale), si chiedono, cosa ne sarebbe del dibattito parlamentare? E del Parlamento stesso?

Si chiariscono le competenze tra Stato e Regioni?


SÌ. La riforma, sostengono i favorevoli, eliminerebbe le competenze “concorrenti” e semplificherebbe i rapporti tra Stato e Regioni. In questo modo, dicono, verrebbero risolti i conflitti d’attribuzione che ingolfano la Corte costituzionale e causano sprechi, ritardi e minore sviluppo. Sarebbero di esclusiva competenza dello Stato materie come l’ambiente, la gestione di porti e aeroporti, i trasporti e la navigazione, la produzione e distribuzione dell’energia, le politiche per l’occupazione, la sicurezza sul lavoro, l’ordinamento delle professioni, i beni culturali e il turismo, la sanità. Solo alle Regioni più virtuose, con meno costi e maggiore efficienza, verrebbero riconosciute più competenze. Il Senato, poi, diventerebbe il luogo della rappresentanza delle Regioni e dei Comuni: è qui che questi enti locali potrebbero portare a livello nazionale le proprie istanze e dire la loro sulle politiche dell’Unione europea e l’impatto sui territori.

NO. La riforma, dicono i contrari, non solo non chiarirebbe le competenze tra Stato e Regioni, ma indebolirebbe le autonomie territoriali. Produrrebbe, poi, un eccessivo ri-accentramento dello Stato rispetto alle Regioni. Si avrebbe, così, una netta inversione di tendenza rispetto alla riforma del Titolo V del 2001, che puntava sul rafforzamento delle autonomie: a 15 anni di distanza, invece di limitarsi a correggere gli errori di quella riforma e costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia, il nuovo progetto rovescerebbe completamente quell’impostazione. Le Regioni, continua il fronte del No, diventerebbero organismi privi di reale autonomia (nulla cambierebbe, invece, per quelle a statuto speciale). I conflitti con lo Stato, poi, continuerebbero ad esserci: in molte materie, infatti, la competenza esclusiva statale sarebbe limitata alle “disposizioni generali e comuni” che, è l’accusa, è una definizione ambigua e che lascia troppe interpretazioni.

 

Aumenta il potere dei cittadini?


SÌ. Con la riforma, spiega il fronte del Sì, la democrazia italiana diventerebbe autenticamente partecipativa. I cittadini, infatti, avrebbero a disposizione nuovi e più efficaci strumenti per proporre idee. Il Parlamento, ad esempio, avrebbe l’obbligo di discutere e deliberare sui disegni di legge d’iniziativa popolare proposti da 150mila elettori. Sarebbero, poi, introdotti i referendum propositivi e d’indirizzo e si abbasserebbe il quorum per la validità dei referendum abrogativi (se richiesti da 800mila elettori, il quorum si abbasserebbe dall’attuale 50 per cento più uno degli aventi diritto al 50 per cento più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche).

NO. La riforma, in realtà, diminuisce il potere dei cittadini: è questa la tesi del fronte del No. Il provvedimento, infatti, triplica il numero di firme necessarie per la presentazione di proposte di  legge d’iniziativa popolare: passerebbero da 50mila a 150mila. Critiche anche sul numero di adesioni, 800mila, che permetterebbero di abbassare il quorum dei referendum abrogativi al 50 per cento più uno dei votanti alle ultime Politiche: è giudicato troppo alto rispetto alle 500mila firme che servono per chiedere il referendum con il solito quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto.

La riforma è legittima e chiara?


NO. Le critiche dei contrari, per alcuni dei quali il No al referendum è anche un segnale per chiedere un governo eletto, non riguardano solo i contenuti della riforma ma anche il modo in cui è stata scritta. Male, sostengono: testo lunghissimo, ingarbugliato, incomprensibile, poco chiaro, pieno di formule illeggibili e tecniche, che troppo spesso rimanda ad altro o lascia spazio a interpretazioni. I fautori del No sottolineano anche errori di grammatica costituzionale. Un esempio? Il nuovo Senato dovrebbe essere composto anche da consiglieri regionali. Gli statuti delle Regioni, però, prevedono l’incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di parlamentare  e per modificarli servono vari voti parlamentari e l’approvazione di tutti i Consigli regionali. Inoltre, continuano, la riforma è illegittima perché prodotta da un Parlamento eletto con una legge elettorale, il Porcellum, dichiarata incostituzionale. Il testo, aggiungono, è stato prodotto non per iniziativa libera del Parlamento, ma sotto dettatura del governo. Le voci per il No criticano anche il referendum stesso: sarebbe stato meglio, dicono, votare separatamente su temi così poco omogenei.

SÌ. La riforma è legittima, ribattono i sostenitori del Sì, perché la Corte costituzionale ha affermato che la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum non aveva “nessuna incidenza” sui poteri del Parlamento, che in quel momento stava già discutendo una riforma costituzionale. Se avesse voluto vietarla, dicono, lo avrebbe fatto in modo esplicito. Sulle critiche al modo in cui è stata scritta, rispondono che nessun testo di legge è perfetto ma negano che ci siano norme incomprensibili. Per dimostrare che è il frutto della volontà del Parlamento e che non è stata dettata dal governo, il fronte del Sì ricorda che l’esecutivo ha presentato il disegno di legge iniziale ma che tra Camera e Senato sono state fatte più di 120 modifiche. Per quanto riguarda il quesito unico, aggiungono che “non si può pensare che un testo costituzionale sia una specie di scaffale di supermercato dal quale uno prende quel che gli piace”. La riforma, dicono, ha una sua coerenza interna e complessiva.

 

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