Colpito il gruppo camorristico denominato "abbasc Miano", costola del clan Lo Russo, operante nei quartieri di Miano, Marianella, Piscinola e Don Guanella
Eseguite a Napoli 35 misure cautelari emesse dal gip di Napoli Claudio Marcopido nei confronti di persone considerate affiliate al gruppo camorristico denominato "abbasc Miano", costola del clan Lo Russo, operante nei quartieri di Miano, Marianella, Piscinola e Don Guanella. Ai 32 arrestati (tre destinatari al momento mancano all'appello) sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, detenzione e porto abusivo di armi, estorsione e usura. Tra i destinatari delle misure cautelari figurava anche Stefano Bocchetti, ucciso il 23 gennaio in un circolo ricreativo di Miano.
L'operazione
Le misure cautelari, emesse su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli (pm Enrica Parascandolo e Alessandra Converso, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli), sono state eseguite dai carabinieri del comando provinciale di Napoli e dal personale del centro operativo Dia di Napoli. Gli investigatori hanno focalizzato la loro attenzione sulle "giovani leve" del clan che, dopo gli arresti e i pentimenti di esponenti di vertice del clan Lo Russo, hanno assunto il controllo della zona. Secondo gli inquirenti, il controllo era garantito anche dai legami con gli affiliati detenuti, dai quali, nonostante la detenzione, hanno continuato a ricevere consigli e direttive grazie ai contatti mantenuti dai familiari. I reclusi hanno quindi continuato a partecipare alla vita del clan impartendo direttive sulle attività illecite da compiere.
Le minacce
Secondo gli inquirenti, il gruppo camorristico era particolarmente invasivo e aggressivo, mostrandosi spesso capace di trasformare la violenza in affari. Era strettamente legato ai vertici del clan Lo Russo, i quali dalle carceri, anche via telefono, impartivano ordini agli affiliati. Gli investigatori hanno sequestrato una cospicua quantità di pizzini sui quali gli indagati non solo segnavano i nomi delle vittime delle estorsioni e dell'usura, ma anche le modalità, più o meno violente, da adottare per "ammorbidirli". In sostanza, minacce ad hoc a seconda della tipologia delle vittime. Per gli investigatori, il gruppo di "abbasc Miano" era quello che destava maggiore preoccupazione dal punto di vista della sicurezza pubblica a causa della sua particolare aggressività e anche per la trasversalità degli illeciti che i suoi membri commettevano: dallo spaccio della droga alle frodi fiscali, passando per le estorsioni e l'usura.
Il modus operandi del clan Lo Russo
Il clan Lo Russo, in particolare, vendeva crack e cocaina nelle sue piazze di spaccio, ed era capace di esercitare pressione sul territorio e sui rivali attraverso le cosiddette “stese” (raid con colpi d'arma da fuoco nei vicoli dei quartieri), come dimostra l'imponente arsenale che aveva a disposizione - fucili mitragliatori e a pompa, pistole Magnum 357 e munizioni - sequestrati in varie tornate.
Il ruolo delle donne
Nel gruppo di "abbasc Miano", le donne assumono un'importanza rilevante. Fra i 35 arresti disposti quest'oggi ne figurano sette, tra cui M.T. (nipote di G.T., ritenuto elemento di spicco dell'Alleanza di Secondigliano) compagna del boss S.S., e V.C., moglie di P.S., detenuto ed ex capo della camorra dei Decumani, componente della cosiddetta "Paranza dei bambini". In particolare, il gruppo si teneva in contatto con gli affiliati anche attraverso M.T., incaricata pure al recupero dei crediti e dell'usura. In relazione a quest'ultima attività illecita, gli inquirenti hanno trovato e sequestrato un libro mastro sul quale erano state annotate tutte le spese.
L’intercettazione telefonica in cella
Nel corso delle indagini della procura antimafia partenopea, è emersa un’intercettazione particolare. M.T. (nipote di G.T., ritenuto elemento di spicco dell'Alleanza di Secondigliano), mentre fa shopping, per non sbagliare acquisti fa una videochiamata al compagno S.S. (“boss” del clan Lo Russo, detto "dei Capitoni" S.S., detenuto nel carcere di Terni), il quale, malgrado sia in carcere, ha a disposizione un IPhone attraverso il quale può vedere la merce. E durante il colloquio, entrambi chiedono un parere a un terzo detenuto.
L’uso dei telefoni nelle carceri
S.S, da quanto emerge, non era il solo ad avere a disposizione il telefono in cella tra i detenuti del clan ristretti nel capoluogo partenopeo, tra le carceri di Secondigliano e Poggioreale. La detenzione di apparecchi telefonici si registra anche in altre strutture detentive dello Stivale. Il “boss”, a quanto trapela, usa il telefono per impartire ordini (come quando chiede alle nuove leve di non fargli mancare il sostentamento economico) o per tenersi in contatto con la famiglia, ma anche per stringere amicizia e progettare affari, ovviamente illeciti, con il “baby boss” della "paranza dei bambini", P.S, detenuto nello stesso carcere. P.S., da quanto emerso dalle indagini, comunicava con la sua donna utilizzando il telefono che aveva a disposizione S.S.