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Rock & Wall, 6 giugno 1987: la notte in cui gli amanti divennero eroi. Podcast 3

Mondo

Nicola Ghittoni

Cinque date, cinque concerti, cinque storie nella cornice della grande Storia. Un viaggio tra le note che hanno fatto da colonna sonora ai sogni, alle speranze e alle battaglie di una generazione cresciuta all’ombra del Muro. Capitolo terzo

Podcast Sky Tg24 in collaborazione con Radio 24 - Il Sole 24 Ore

Giugno 1982, giugno 1987. Cinque anni, per il calendario. Un’era, per l’almanacco impazzito dell’Europa dell’Est. Il mondo sta cambiando a una velocità incontrollabile: il Nobel a Walesa e l’elezione di Gorbaciov, glasnost e perestroika, la sfida a scacchi tra il glaciale Karpov e il geniale Kasparov,  l’esplosione di un reattore a Chernobyl e l’atterraggio di un monomotore tedesco sulla Piazza Rossa di Mosca. La traiettoria beffarda di quell’aereo da turismo racconta bene l’arco di quegli anni: è il maggio del 1987, a bordo c’è un ragazzo di 19 anni e vuole recapitare di persona un messaggio di pace.

Eroe, solo per un giorno

Mathias Rust è nato a due passi da Amburgo, come l’editore Axel Springer e come il chitarrista Carlo Karges (molti protagonisti del nostro lungo racconto sono nati in un fazzoletto di terra di pochi chilometri quadrati). Affitta un Cessna, gironzola un po’ tra l’Islanda e la Scandinavia, poi spegne la radio e fa rotta verso l’Estonia, in barba ai piani di volo. Il 28 maggio l’incredibile diventa realtà, e prende la forma di una dolce planata tra le cupole di San Basilio e il Cremlino. Mathias esce dall’abitacolo in mezzo a una folla stupefatta: certo lo aspetta il carcere, ma il fatto di essere vivo e incolume è già un miracolo. Perché il suo volo viene da lontano. Se fosse decollato una sera di giugno di cinque anni prima, probabilmente avrebbe fatto la fine dei palloncini di “99 Luftballons”, abbattuto da un missile sovietico (è successo davvero, a un aereo di linea della Korean Air Lines, il 1 settembre 1983. Bilancio: 269 morti). Ma la storia non fa piani quinquennali, o se li fa, li cambia in un battito d’ali. Dieci giorni dopo l’atterraggio di Rust sulla Piazza Rossa di Mosca, nella piazza di un’altra capitale della Guerra Fredda una squadra di operai sta allestendo il palco per uno spettacolo che cambierà il corso degli eventi. Siamo in Piazza della Repubblica, di fronte al Reichstag, Berlino Ovest. Su quel palco sta per entrare in scena il re dei cambiamenti.

“I can remember, standing by the wall”

Per David Bowie Berlino è più di una casa. Qui si rifugia a metà degli anni ’70 con l’amico Iggy Pop per sfuggire ai tentacoli di Los Angeles, che lo stanno strangolando. Qui si inventa l’ennesima reincarnazione, assorbendo le vibrazioni elettroniche del krautrock, la nuova musica di avanguardia tedesca che ha giusto bisogno di un testimonial d’eccezione per uscire dalla nicchia degli appassionati. Qui firma una trilogia di album leggendari, e un singolo entrato nel mito. E per una volta non è sbagliato parlare di mito, e non solo perché i suoi protagonisti sono eroi, ma anche per il gusto di sfatarlo almeno un poco. “Heroes” è stata registrata letteralmente a due passi dal Muro: dalla finestra degli Hansa Studios si possono individuare le sentinelle di vedetta. Ed è un vero muro del suono quello progettato dal produttore Tony Visconti e da Brian Eno per accompagnare il testo di Bowie. Loro sono gli ingegneri, gli ultimi mattoni li mette il chitarrista Robert Fripp: arriva in aereo da New York, ascolta la base del pezzo e in una notte insonne butta giù tre riff. Visconti li sovrappone su tre piste del mixer e lo stupefacente Wall of sound è completo. Ci sono tutti gli ingredienti perché la canzone diventi un inno: due amanti tormentati, l’ombra del Muro a oscurare i loro baci, il fischio delle pallottole sopra le loro teste. E l’invocazione, “We can beat them”, possiamo batterli. Se mescoli bene il tutto e lo servi freddo nella Berlino del ’77, non ti devi stupire di ritrovarlo poi a inebriare le menti dei giovani in lotta per una città senza barriere. Tutto giusto, tutto vero, solo che… Solo che per Bowie si trattava di una canzone d’amore, di resistenza anche, ma non di lotta politica. E gli eroi di quel bacio? Non erano due innamorati berlinesi divisi dal Muro, come scrissero in molti? Acqua. C’è un’altra verità, ma non la si può confessare. Non certo nel 1977, quando viene incisa la canzone. Il fatto è che i due amanti hanno un nome e un cognome, e uno dei due ha anche una moglie. Lui è Tony Visconti, il produttore dell’album. Lei è Antonia Maass, una delle coriste tedesche che stanno collaborando all’incisione. Bowie li ha visti baciarsi dalla finestra, durante una pausa della lavorazione. Conosce Mary, la moglie di Tony: non vuole dare un dispiacere a lei, e molti grattacapi all’amico. Manterrà il segreto per anni.  Non lo ha ancora svelato nel 1987, quando il brano figura nella seconda parte della scaletta che Bowie si appresta a interpretare di fronte ai fan accorsi davanti al Reichstag per lui. Dopo quella sera, “Heroes” non sarà più la stessa. E neanche Berlino.

La mossa del cavallo

Il concerto è il primo atto di un festival di tre giorni organizzato in occasione dei 750 anni dalla fondazione della città, che vedrà esibirsi anche gli Eurythmics e i Genesis. C’è una particolare fibrillazione, da tutti e due i lati. Non sfugge a nessuno un dettaglio: in una notte silenziosa, uno starnuto davanti al Reichstag si può sentire fino alla Porta di Brandeburgo. Questa è la distanza tra il colorato palco di Bowie e i palazzi grigi di Berlino Est. Per la Stasi è il vecchio incubo dei Rolling Stones che diventa realtà: il Duca Bianco non salirà su un tetto per farsi vedere al di là del Muro, ma la sua musica si udirà certo ben chiara sull’Unter den Linden e nelle vie d’intorno. “E magari saranno i nostri giovani, a salire sui tetti per ascoltarlo”, pensano le autorità (previsione azzeccata). Scattano le prime contromisure: l’area intorno all’ambasciata sovietica, davanti alla Porta, viene transennata. Ma in questa partita a scacchi c’è chi ha già pronta la mossa a sorpresa. È un ragazzotto di poco più di trent’anni e, manco a farlo apposta è nato ad Amburgo. Lo riconosci dai grandi occhiali da vista che, più che coprire, accentuano il suo leggero strabismo. Si chiama Peter Schwenkow, di professione impresario musicale. Per dirne una, è lui ad aver riportato nel 1982 i Rolling Stones a suonare al Waldbuehne, anfiteatro di cui aveva preso in leasing i diritti di utilizzo l’anno prima. Ed è sempre lui – ormai lo avrete capito - ad aver organizzato il concerto di Bowie al Reichstag. Ora si aggira tra gli operai per assicurarsi che le sue consegne vengano rispettate alla lettera: “Almeno un quarto degli altoparlanti devono essere puntati verso la parte orientale della città”. In termini di acustica è una direttiva senza senso, ma non c’è bisogno di spiegare cosa ha in mente Peter. È un cavallo pazzo, ma c’è del metodo nella sua follia. Cala la sera su Berlino. È scacco matto.

“And the shame was on the other side”

Quando Bowie attacca le prime note di “Up the hill backwards” il pratone davanti al Reichstag è gremito, ma anche dall’altra parte del Muro si è radunata una folla di persone. Dei duemila che hanno tentato di raggiungere la Porta di Brandeburgo, qualche centinaio è riuscito a eludere i blocchi della polizia. Non si rivelerà una scelta fortunata. Ma forse non è neanche una scelta, quanto piuttosto una necessità fisica: quella di esserci, partecipare, aspettare le note di “Heroes” e sentire che risuonano anche per loro. D’altronde, di sfidare a viso aperto la polizia non avrebbero alcun bisogno: dopo uno sfiancante lavoro diplomatico con gli entourage degli artisti la RIAS, la Radio del Settore Americano di Berlino (chi si risente!), è riuscita a ottenere il permesso di trasmettere integralmente in diretta la tre giorni di concerti. È una concessione più unica che rara: fino ad allora il timore di veder proliferare registrazioni casalinghe aveva sempre bloccato le richieste sul nascere. Ma ora l’idea che centinaia di nastri pirata invadano Berlino Est non è più un cruccio commerciale: è un gesto politico. E David Bowie, che nel frattempo ha cambiato abito di scena e sta aprendo la seconda parte dello spettacolo con “87 and cry”, sta per viverlo sulla propria pelle. Il prossimo brano in scaletta è “Heroes”, e quel che accade lo lasciamo raccontare a lui. “Quando l’abbiamo suonata sembrava un inno, quasi una preghiera. Non ho mai più provato una sensazione simile. È stata una delle performance più emozionanti che abbia mai vissuto. Ero in lacrime. C’erano migliaia di persone dall’altra parte che erano venute vicino al muro e noi dal palco potevamo sentirli applaudire e cantare. Mi ha spezzato il cuore”. Ma il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i Vopos (gli agenti della Volkspolizei) e la risposta è la stessa del 1969. Quando un regime è sotto scacco, a pagare sono i pedoni: i manganelli si abbattono senza pietà su quella platea improvvisata, più di 200 finiscono in manette. Bowie non sa cosa accade a pochi metri dal suo palco, ma in quegli stessi istanti improvvisa, in un traballante tedesco, una dedica: “Voglio inviare i miei migliori auguri a tutti i nostri amici che si trovano dall’altra parte del Muro”.

“And the shame was on the other side”

Quando Bowie attacca le prime note di “Up the hill backwards” il pratone davanti al Reichstag è gremito, ma anche dall’altra parte del Muro si è radunata una folla di persone. Dei duemila che hanno tentato di raggiungere la Porta di Brandeburgo, qualche centinaio è riuscito a eludere i blocchi della polizia. Non si rivelerà una scelta fortunata. Ma forse non è neanche una scelta, quanto piuttosto una necessità fisica: quella di esserci, partecipare, aspettare le note di “Heroes” e sentire che risuonano anche per loro. D’altronde, di sfidare a viso aperto la polizia non avrebbero alcun bisogno: dopo uno sfiancante lavoro diplomatico con gli entourage degli artisti la RIAS, la Radio del Settore Americano di Berlino (chi si risente!), è riuscita a ottenere il permesso di trasmettere integralmente in diretta la tre giorni di concerti. È una concessione più unica che rara: fino ad allora il timore di veder proliferare registrazioni casalinghe aveva sempre bloccato le richieste sul nascere. Ma ora l’idea che centinaia di nastri pirata invadano Berlino Est non è più un cruccio commerciale: è un gesto politico. E David Bowie, che nel frattempo ha cambiato abito di scena e sta aprendo la seconda parte dello spettacolo con “87 and cry”, sta per viverlo sulla propria pelle.

Il prossimo brano in scaletta è “Heroes”, e quel che accade lo lasciamo raccontare a lui. “Quando l’abbiamo suonata sembrava un inno, quasi una preghiera. Non ho mai più provato una sensazione simile. È stata una delle performance più emozionanti che abbia mai vissuto. Ero in lacrime. C’erano migliaia di persone dall’altra parte che erano venute vicino al muro e noi dal palco potevamo sentirli applaudire e cantare. Mi ha spezzato il cuore” (David Bowie, 2003). Ma il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i Vopos (gli agenti della Volkspolizei) e la risposta è la stessa del 1969. Quando un regime è sotto scacco, a pagare sono i pedoni: i manganelli si abbattono senza pietà su quella platea improvvisata, più di 200 finiscono in manette. Bowie non sa cosa accade a pochi metri dal suo palco, ma in quegli stessi istanti improvvisa, in un traballante tedesco, una dedica: “Voglio inviare i miei migliori auguri a tutti i nostri amici che si trovano dall’altra parte del Muro”.

“Tear down this wall”

L’applauso si propaga lungo Piazza della Repubblica come un brivido. Dall’altra parte i berlinesi dell’Est, sotto i colpi della polizia, iniziano a intonare un coro sorprendente: “Gorby! Gorby!”. Invocano Gorbaciov come fosse una speranza. Giovani che inneggiano al leader del blocco sovietico, e i guardiani di quel mondo che li prendono a bastonate. Fermatevi a riflettere e immaginate di trasportare la scena qualche decennio prima, con Stalin al posto di Gorbaciov: chi avrebbe osato torcere un capello ai supporter del capo supremo? È un’epifania, pur nella sua brutalità un momento perfetto: tutte le contraddizioni del regime immortalate in un’istantanea.

Le sere successive la scena si ripete con Eurythmics e Genesis: nonostante le minacce i giovani tornano ad affollarsi il più vicino possibile agli altoparlanti, non hanno paura dello sfollagente, non hanno più paura di gridare “Buttate giù quel Muro”, sapendo di ricevere in cambio qualche livido a un paio di manette. Un argine si è rotto.

Pochi giorni dopo arriva in città il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. È il 12 giugno. Il palchetto è allestito proprio davanti alla Porta di Brandeburgo, lato Ovest. Pausa teatrale, prende un bel respiro e detta ai taccuini della Storia la sua frase: “Mr. Gorbaciov, tear down this wall!”. Facile così, Ronnie. Il testo del tuo discorso lo hanno appena scritto i ragazzi dell’altra parte del Muro. La musica? David Bowie, naturlich.

“Tear down this wall”

L’applauso si propaga lungo Piazza della Repubblica come un brivido. Dall’altra parte i berlinesi dell’Est, sotto i colpi della polizia, iniziano a intonare un coro sorprendente: “Gorby! Gorby!”. Invocano Gorbaciov come fosse una speranza. Giovani che inneggiano al leader del blocco sovietico, e i guardiani di quel mondo che li prendono a bastonate. Fermatevi a riflettere e immaginate di trasportare la scena qualche decennio prima, con Stalin al posto di Gorbaciov: chi avrebbe osato torcere un capello ai supporter del capo supremo? È un’epifania, pur nella sua brutalità un momento perfetto: tutte le contraddizioni del regime immortalate in un’istantanea. Le sere successive la scena si ripete con Eurythmics e Genesis: nonostante le minacce i giovani tornano ad affollarsi il più vicino possibile agli altoparlanti, non hanno paura dello sfollagente, non hanno più paura di gridare “Buttate giù quel Muro”, sapendo di ricevere in cambio qualche livido a un paio di manette. Un argine si è rotto. Pochi giorni dopo arriva in città il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. È il 12 giugno. Il palchetto è allestito proprio davanti alla Porta di Brandeburgo, lato Ovest. Pausa teatrale, prende un bel respiro e detta ai taccuini della Storia la sua frase: “Mr. Gorbaciov, tear down this wall!”. Facile così, Ronnie. Il testo del tuo discorso lo hanno appena scritto i ragazzi dell’altra parte del Muro. La musica? David Bowie, naturlich.

“Tear down this wall”

L’applauso si propaga lungo Piazza della Repubblica come un brivido. Dall’altra parte i berlinesi dell’Est, sotto i colpi della polizia, iniziano a intonare un coro sorprendente: “Gorby! Gorby!”. Invocano Gorbaciov come fosse una speranza. Giovani che inneggiano al leader del blocco sovietico, e i guardiani di quel mondo che li prendono a bastonate. Fermatevi a riflettere e immaginate di trasportare la scena qualche decennio prima, con Stalin al posto di Gorbaciov: chi avrebbe osato torcere un capello ai supporter del capo supremo? È un’epifania, pur nella sua brutalità un momento perfetto: tutte le contraddizioni del regime immortalate in un’istantanea.

Le sere successive la scena si ripete con Eurythmics e Genesis: nonostante le minacce i giovani tornano ad affollarsi il più vicino possibile agli altoparlanti, non hanno paura dello sfollagente, non hanno più paura di gridare “Buttate giù quel Muro”, sapendo di ricevere in cambio qualche livido a un paio di manette. Un argine si è rotto.

Pochi giorni dopo arriva in città il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. È il 12 giugno. Il palchetto è allestito proprio davanti alla Porta di Brandeburgo, lato Ovest. Pausa teatrale, prende un bel respiro e detta ai taccuini della Storia la sua frase: “Mr. Gorbaciov, tear down this wall!”. Facile così, Ronnie. Il testo del tuo discorso lo hanno appena scritto i ragazzi dell’altra parte del Muro. La musica? David Bowie, naturlich.

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