Trump perde Miami: cosa significa per la Florida l'elezione di Higgins

È passato più o meno un mese dall’elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York. E a un mese da quella seguitissima elezione se n’è tenuta un’altra. Meno roboante, mediatica e seguita, certo, ma probabilmente più significativa, almeno per quel che riguarda gli equilibri politici interni degli Stati Uniti: quella per eleggere il sindaco di Miami. A sfidarsi erano due candidati, uno appoggiato dal partito repubblicano, Emilio González, ex city manager che godeva dell'appoggio di Donald Trump e del governatore Ron DeSantis, e la democratica Eileen Higgins. A sorpresa ha vinto quest’ultima, per altro con un ampio margine , diventando non solo la prima sindaca della storia della città, ma anche la prima democratica a guidare Miami dopo 28 anni di saldo dominio repubblicano . Una vittoria, quella di Higgins, che per molti aspetti è più clamorosa e politicamente indicativa di quella di Mamdani a New York. Questo perché Mamdani giocava- per così dire- in casa ed era il candidato ufficiale del partito democratico in una città molto democratica, così tanto democratica che l’unico altro candidato credibile era, non a caso, un altro democratico, Andrew Cuomo, uscito sconfitto dalle primarie e candidatosi poi come indipendente. A Miami invece la storia è diversa. Non solo perché la città è per lo più abitata da ispanici ed esuli da regimi come quello di Cuba, e quindi fortemente connotati a destra e vicini a Donald Trump, ma anche perché la Florida intera, dopo essere stata per anni uno stato in bilico, si è decisamente spostata a destra. Uno spostamento che, da solo, condiziona buona parte delle elezioni tanto che, dal 1924 a oggi, solo Joe Biden è riuscito a vincere la Presidenza senza conquistare i 29 grandi elettori della Florida. Nel 2000, qualcuno lo ricorderà, fu la sola Florida, e solo con uno scarto di 500 voti, a decidere l’intera corsa presidenziale. A rendere la Florida uno stato decisamente repubblicano, negli ultimi anni hanno contribuito vari fattori. Il primo è stato la decisione del governatore Ron DeSantis di mantenere il suo stato privo di norme anti-covid, dai lockdown alle mascherine, cosa che lo ha reso una specie di paradiso per i negazionisti della pandemia che vi si sono trasferiti in gran numero. Poi, l’effettiva popolarità dell’amministrazione del governatore DeSantis, e ancora il fatto che Trump stesso abbia trasferito la sua residenza lì, nel resort di Mar-a-Lago. Infine, come dicevamo, l’orientamento politico di buona parte degli esuli ispanici nell’area. Tutto questo ha portato non solo la Florida a trasformarsi da uno stato in bilico a uno stato saldamente repubblicano, ma anche a diventare una terra di estremismo trumpiano. Per avere un’idea di quanto basta sapere che, secondo un’analisi pubblicata su The Conversation, “la Florida è diventata sempre più una roccaforte per altri tipi di attivisti politici, alcuni dei quali hanno avuto un ruolo determinante nelle rivolte al Campidoglio del 6 gennaio 2021. La Florida ospitava l'11,5% delle 716 persone inizialmente accusate di aver partecipato alle rivolte al Campidoglio”. In questo quadro, nel corso delle ultime elezioni presidenziali persino la contea di Miami-Dade, che pure, a dispetto dell’orientamento della sua città principale, era sempre stata democratica, si era spostata per la prima volta dopo decenni a destra e aveva votato per Trump. Ora, a un anno esatto dalla netta vittoria del presidente Trump in Florida, la vittoria di Higgins a Miami appare come una crepa nel suo consenso: un segnale di speranza per i democratici, che sono riusciti a vincere in una città in cui non toccavano palla dagli anni ’90, e uno di paura per i repubblicani, che sanno che, senza la popolosa Miami, vincere in Florida è faccenda difficile. Ma soprattutto appare come un rifiuto delle politiche trumpiane proprio da parte degli ispanici che, negli scorsi mesi, erano stati suoi accesi sostenitori. Non è un caso infatti che buona parte della campagna di Higgins si sia basata sulla critica delle politiche di espulsione decise proprio dall’amministrazione Trump. Politiche di espulsione che, ironia della sorte, hanno preso di mira proprio le comunità latine che avevano sostenuto Trump. “Higgins – scrive il sito di NPR – ha parlato spesso nella città a maggioranza ispanica della repressione dell'immigrazione di Trump, affermando di aver sentito di molte persone a Miami preoccupate per la detenzione dei propri familiari. Ha condotto la sua campagna elettorale da orgogliosa democratica, nonostante la corsa fosse ufficialmente apartitica, e ha battuto il candidato sostenuto da Trump, EmilioGonzález, ex city manager, che ha dichiarato di aver chiamato Higgins per congratularsi con lei”. Ma oltre a questo Higgins ha fatto una scelta che già Zohran Mamdani a New York aveva dimostrato essere vincente: parlare alle persone dei problemi concreti, come il costo della vita e l’inadeguatezza dei salari, abbandonando le battaglie culturali e i posizionamenti ideologici. “Nonostante i temi partitici della corsa — scrive Politico — Higgins, ingegnere meccanico ed ex direttrice del Corpo di Pace in Belize, ha spesso evitato ogni atteggiamento partigiano nelle interviste e ha invece condotto una campagna incentrata su come avrebbe fatto funzionare meglio e più velocemente l'amministrazione cittadina per contribuire ad alleviare i problemi di accessibilità economica dei residenti”. Per la seconda volta in pochi mesi, un candidato improbabile ha dimostrato che questi sono i temi verso i quali gli elettori sono più sensibili. Ora sta al partito democratico raccogliere o meno la lezione.

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Luciana Grosso